Questo il breve testo che si legge nell’ultima di copertina del volume da pochi giorni pubblicato da Einaudi, L’innocenza degli oggetti di Orhan Pamuk, traduzione italiana del catalogo del Museo dell’Innocenza che lo scrittore ha inaugurato lo scorso 28 aprile a Istanbul, nel quartiere di Çukurcuma.
I lettori di Pamuk sanno bene che questa apertura ha costituito la seconda tappa di un originale progetto all’interno del quale un romanzo e un museo sono stati concepiti, fatti crescere e messi al mondo come creature assolutamente complementari, al termine di un minuzioso e appassionato lavoro durato più di un decennio. Sanno anche che romanzo e museo narrano con linguaggi diversi la stessa intensa storia d’amore, ma che questa storia può essere letta e guardata dentro una rete di altre storie, spunti e riflessioni che rinviano alla vita quotidiana e alle consuetudini sociali della Istanbul degli anni ’70-’80, al valore degli oggetti come depositari di interi mondi affettivi, testimoni discreti degli attimi di felicità o di dolore dentro il fluire delle nostre vite, all’importanza della loro conservazione nei piccoli musei, al senso del tempo e della felicità, ad altro ancora.
La prima tappa era stata la pubblicazione del romanzo, appunto, uscito in Turchia nel 2008, in Italia nel 2009. Su questo libro è stato detto e scritto molto. L’aspetto che, però, mi piace sottolineare, è che una lettura attenta e paziente delle quasi 600 pagine di testo consente, a mio avviso, di cogliere appieno la delicata raffinatezza con cui Pamuk riesce ad accompagnarci dentro gli stati d’animo del protagonista Kemal, nel suo sofferto percorso interiore che lo trasforma da spregiudicato e rampante imprenditore della Istanbul bene in un uomo attanagliato da una passione incontenibile e sfortunata, e, soprattutto, in quel suo passaggio quasi repentino da un’esperienza breve (44 giorni) e intensissima di amore, attrazione ed erotismo ad una prolungata (quasi 8 anni) ed altrettanto intensa di devozione casta e rispettosa, adorante e discreta nei confronti della giovane Füsun. Tutto questo attraverso il dolore lacerante (anche fisico) e la consolazione, la disperazione, l’ossessione e la tenerezza. Descrizioni che sono un cesello, dettagli che fissano le tappe di una progressione tormentata eppure piena di attesa e speranza, per poi raccontarne l’epilogo, ancora più esteso nel tempo (più di 20 anni), intriso di assenza e ricordo, e della volontà di trattenere a sé ogni testimonianza della felicità perduta, volontà che trasforma anche quell’assenza in una nuova felicità. Attraverso la creazione del museo.
Nelle ultime pagine, quando entra in campo fra i personaggi – interpellato da Kemal perché lo aiuti a realizzare il romanzo e il museo – lo stesso Pamuk prende la parola al posto del suo protagonista e ci narra dei loro incontri, durante i quali Kemal gli espone le proprie idee su come dovrà essere il museo che mostrerà le centinaia di oggetti da lui conservati a testimonianza della sua storia. A questo punto, il lettore comincia a navigare in una dimensione quasi onirica, in cui protagonista e autore si sovrappongono e si confondono, con un effetto che allo stesso tempo disorienta e cattura.
E nella stesura del catalogo – ultima tappa di questo percorso fondante del progetto “Museo dell’innocenza” – Pamuk continua ad avere la parola. Allora, se nel romanzo è stato Kemal a raccontare la sua vicenda in prima persona, rivolgendosi ad Orhan solo nella parte finale del libro, nel catalogo avviene il contrario: Orhan è protagonista e ci riferisce dei suoi colloqui con Kemal, fra il 2000 e il 2007 (anno della sua morte), per la condivisione delle scelte sul museo da realizzare, proprio come se Kemal fosse esistito davvero. Così, anche nel catalogo, come nel romanzo, il lettore rischia di disorientarsi e confondere i due soggetti, le loro vite, le loro case, le loro famiglie, i loro sentimenti.
Nelle ultime pagine campeggia l’immagine della piccola soffitta situata in cima al museo – con il letto di Kemal e una sedia di legno – da cui è possibile raggiungere con lo sguardo tutto lo spazio sottostante. Nel testo che l’accompagna, Pamuk parla delle notti trascorse ad ascoltare il racconto del suo protagonista: “Era facile immedesimarsi in Kemal: potevo raccontare la mia storia come se fosse la sua, e la sua come se fosse la mia. E ogni volta che capivo questo, capivo anche che non aveva tanta importanza se la voce fosse la mia o quella di Kemal. Forse gli oggetti non ci ricordavano le stesse cose?”
Pare di vederli, tutti e due a chiacchierare con calma immersi nel silenzio di quella soffitta. Un silenzio carico di vita e di ricordi intensi, carico di amore. Un silenzio in cui malinconia e felicità si fondono in un sentimento unico e profondo. Orhan e Kemal: entrambi personaggi, entrambi persone.
Chi si aspetta di leggere la classica introduzione seguita dalle schede degli oggetti esposti, sarà piacevolmente sorpreso e, oserei dire, conquistato. Perché in questo libro, nell’intrecciare con grazia i propri ricordi personali e quelli del suo eroe, Pamuk ci offre ancora una volta la possibilità di entrare dentro la sua esperienza di vita intimamente legata alla propria città, di conoscere qualcosa di più delle sue idee e delle sue aspirazioni, di capire cosa riesce a procurargli felicità.
Trovo degna di nota la frequenza con cui compare nel catalogo il concetto di “felicità”, lo stesso che segna in modo forte sia l’incipit che l’excipit del romanzo. Pamuk non perde occasione, durante il suo racconto, per comunicarci quanto la realizzazione di questo suo obiettivo, e molte delle attività che l’hanno resa possibile – lo stesso impegnarsi nella ricerca e nel restauro della casa destinata a divenire museo, il suo acquistare e conservare gli oggetti “con gioia e abbandono”, il lavorare in équipe durante l’allestimento delle sale – lo abbiano reso felice.
Del resto, anche a conclusione di una delle Norton Lectures, conferenze tenute ad Harvard nel 2009 e pubblicate quest’anno in Italia da Einaudi col titolo Romanzieri ingenui e sentimentali, egli ammette che sta “creando un museo per la sua personale felicità”.
Nei capitoli introduttivi del catalogo, l’autore spiega con molta chiarezza i passaggi che lo hanno lentamente condotto (la prima idea è del 1982), man mano che la collezione si arricchiva e la storia si sviluppava, a modificare e perfezionare l’ispirazione iniziale fino a fargli concepire tre nuclei espressivi – romanzo, museo e catalogo – che, pur compenetrandosi, posseggono identità autonome perfettamente godibili in modo indipendente l’una dall’altra. Ci parla del suo attaccamento alle vie della città in cui è ambientata la vicenda di Kemal e Füsun, di come si sia accostato alla questione del “massacro” dei vecchi oggetti d’uso nella Istanbul degli anni ’50 -’70 e del suo sogno di “costruire un museo e scrivere un romanzo”, coltivato oltre ogni ragionevole considerazione sulle difficoltà che avrebbe incontrato.
Dalla descrizione di questo processo emerge anche il senso del percorso espositivo, nel quale una serie di teche corrisponde fedelmente alla sequenza dei capitoli del romanzo. Ogni vetrina è un tableau interamente progettato dallo scrittore – è nota la sua aspirazione giovanile a diventare pittore – il quale scrive di aver immaginato “ogni teca come un singolo, splendido oggetto”. In più di un testo associato alle schede delle teche, egli sottolinea la “natura casuale della bellezza” in cui si è spesso imbattuto durante la sistemazione degli oggetti, che, una volta estrapolati dai loro contesti d’uso e dal fluire della narrazione nel romanzo, assumevano nuovi significati, suggerendo composizioni diverse da quelle immaginate eppure dotate di una loro autonoma forza espressiva. Talvolta, Pamuk si sofferma addirittura a mostrare, tramite sequenze fotografiche, le fasi di allestimento delle singole vetrine “per tentativi ed errori successivi” fino al concretizzarsi di quello “splendido oggetto”.
E’ come se volesse farci partecipi anche della storia segreta del museo, quella non immediatamente percepibile per il visitatore, in cui è possibile ritrovare la stessa meticolosità e pazienza che emergono dalle pagine dei taccuini manoscritti del romanzo, esposte all’ultimo piano del museo accanto ad una serie di cartucce di penna stilografica usate.
C’è anche un po’ di narcisismo in tutto questo? Forse. Eppure, trovo sempre e comunque interessante, e suo modo affascinante, che un autore – in qualsiasi genere di espressione artistica – senta l’esigenza e il piacere di presentare il frutto del proprio lavoro unito al racconto della sua costruzione.
Una breve notazione personale.
Ho letto con attenzione il romanzo. Ho gustato testi e fotografie del catalogo. Presto (in una data che per ora non conosco fra il 28 dicembre e il 3 gennaio) vedrò il museo. Dopo tutto questo pieno di informazioni ed emozioni, sono curiosa di sapere che effetto mi farà. Da quando ho conosciuto il romanzo nel 2010, ho nutrito dentro di me un’idea tutta mia del museo, attraverso la lettura dei testi, la ricerca di interviste e recensioni, la consultazione di video sulla rete, e ben due infruttuosi pellegrinaggi davanti alla sua porta ancora chiusa al pubblico. Un’idea virtuale dunque, perché il museo non era ancora visibile. Ora esiste, invece: è un luogo fisico in cui potrò finalmente cercare e riconoscere i segni di una storia che mi appassiona.
L’amore per i piccoli musei, la vicinanza con il mondo tanto singolare dei collezionisti, l’identificazione di un museo con una casa – ambedue concepiti orgogliosamente come luoghi dell’intimità e degli affetti da chi ne vive la realtà e sente di appartenervi – , la scoperta che “quando gli oggetti vengono sistemati con cura e amore in una teca, possono arrivare ad avere un significato molto più grande di quello che avevano prima” e che, per questo, il museo può essere spazio privilegiato di rappresentazione della vita; credo che principalmente tutto questo – oltre a diversi altri spunti che provengono dalla ricchezza testuale del romanzo – abbia fatto crescere in me l’attenzione verso questa che io ritengo una straordinaria avventura letterario-museale. E sono certa che la visita al museo non mi deluderà.
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