il concetto smart city da grande programma di sviluppo … è stato declassato a slogan… Oggi innovazione sociale significa porre la società davanti ad una prova di maturità, renderla fabbro del proprio futuro, generando processi di partecipazione a tutti i livelli decisionali. (Gianfranco Fancello)
di Alessandro Ligas
Venerdì scorso presso gli spazi di Tiscali si è concluso l’ultimo laboratorio della Settimana Europea dedicata alla Programmazione a cui anche Cagliari, attraverso l’Associazione no-profit Sardegna 2050 e l’Open Campus di Tiscali, ha aderito.La settimana della programmazione è nata da uno studio della CE in cui si evince che il 90% delle professioni richiede delle competenze digitali (e-skill) di base che sono la materia prima per quella che viene chiamata “digital economy”. Sempre dallo studio della CE, si evidenzia l’inadeguatezza tra le competenze digitali disponibili e le esigenze del mercato del lavoro: la metà degli europei, circa il 47%, non ha e-skill sufficienti, per essere inserito all’interno del mercato. Qualora non si apportino dei correttivi si prevede che ci saranno saranno 900.000 posti vacanti nel settore dell’ICT nel 2020.
Cagliari ha aderito a quest’iniziativa grazie ad un movimento dal basso, “in principio doveva essere un evento di uno o due giorni” così racconta Raffaella Sanna dell’Associazione no-profit Sardegna 2050, una delle promotrici dell’evento Cagliari Code Week 2014, “poi, grazie all’entusiasmo ed alla partecipazione di tanti si è trasformato in una settimana ricca e piena di iniziative”.
Oggi dobbiamo renderci conto che stiamo intraprendendo un percorso, la Code week, l’innovazione sociale, le nuove forme si associazionismo, per poi arrivare alle Smart Cities, che ci porterà a cambiare radicalmente i nostri paradigmi e che se veramente vogliamo progredire e far crescere la collettività dobbiamo essere noi stessi a realizzare le nostre idee ed essere promotori del nostro cambiamento affrontando e confrontandoci con i nuovi paradigmi con i quali dobbiamo prendere immediatamente coscienza. Non dimenticandoci che non dobbiamo demolire completamente il passato ma prendere ciò che ha lasciato di buono, anche quelli che noi oggi chiamiamo “errori” devono essere conosciuti per avere una migliore visione di ciò che siamo e di ciò che ci circonda.
Come ha detto Alessandro Bogliolo, ambassador italiano del Code Week, “oggi chiamiamo smart molti degli oggetti che utilizziamo ogni giorno, primi tra tutti i nostri cellulari Ma a renderli “smart” è la presenza di un microprocessore in grado di eseguire istruzioni e di comunicare via Internet. Senza istruzioni gli oggetti smart non farebbero nulla, ma per dare loro istruzioni occorre saper programmare. La programmazione e’ il linguaggio delle cose. Programmare gli oggetti che ci circondano e’ il modo più rapido, economico e efficace per realizzare le nostre idee”.
Abbiamo incontrato Giangranco Fancello, presidente di Sardegna 2050, con il quale abbiamo parlato della Code Week, dell’innovazione bottom up e delle nuove forme di associazionismo. In un percorso che piano piano ci porta dal codice alle smart cities.
Chi sei e di cosa ti occupi.
Sono Gianfranco Fancello, ho 49 anni e sono un docente del Dipartimento di Ingegneria Civile, Ambientale ed Architettura dell’Università di Cagliari, dove insegno “Valutazione dei Progetti di Trasporto” e “Trasporti Merci e Logistica”. Sono anche il direttore di un Centro di Ricerca, il Centralabs, che si occupa di ricerche applicate ed analisi sempre relative al settore della mobilità e dei trasporti.
Infine, con grande orgoglio, sono il presidente di Sardegna 2050, un’associazione regionale, network di 300 persone fra soci e supporter, che si occupa di politiche territoriali e che promuove ed elabora progetti sociali di forte impatto e di immediata realizzabilità utilizzando come paradigma di riferimento l’innovazione.
Fra gli ultimi progetti che abbiamo sviluppato e realizzato, quello di maggior rilievo è sicuramente il #CagliariCodeWeek, promosso insieme a Tiscali Open Campus.
Come è andato il Code Week?
Senza esitazioni posso dire che la #CagliariCodeWeek è andata benissimo, al di la di ogni più rosea aspettativa! Nei 15 laboratori gratuiti abbiamo avuto 350 partecipanti, con 38 ore di attività tenute da 50 volontari, 21 sviluppatori ed 11 aziende, che, tutti a titolo gratuito, hanno da subito messo a disposizione contenuti, lavoro, ore, entusiasmo. Il successo maggiore è stato il riscontro assolutamente positivo avuto alla fine dei laboratori dai partecipanti, dai bambini e dai loro genitori: è stata una reale e concreta azione di diffusione e sperimentazione di nuovi modelli di divulgazione, nel pieno spirito di innovazione che connota le azioni di Sardegna 2050.
C’è una grande fame di conoscenza verso la programmazione e le nuove tecnologie digitali e noi abbiamo cercato di colmare tale vuoto: vorremmo rendere fisso e stabile negli anni questo un appuntamento, connotando il tipo di evento e rendendolo di volta in volta sempre più aderente alle esigenze della società in continua evoluzione.
L’evento è stato possibile grazie ad un movimento dal basso, potrebbe definirsi un esempio concreto di innovazione bottom up?
Si, è stato proprio un chiaro esempio di innovazione dal basso, o “bottom-up”. Come ho detto prima, ci siamo fatti carico di una forte esigenza di conoscenza, di apprendimento, di sete di nuove strumentalità: nella #CagliariCodeWeek, abbiamo quindi scelto di divulgare e promuovere, puntando però molto sulla partecipazione e diffusione. La vera innovazione è stata quella di trasferire ad un ampio pubblico concetti e contenuti che fino a poco tempo fa erano di stretta competenza degli addetti ai lavori. Parlare di Arduino, di web design, di programmazione Python a bambini e ragazzi è stata una sfida che abbiamo vinto, è stato il contributo concreto di Sardegna 2050 nel creare i nuovi cittadini del domani.
Come i processi di innovazione sociale possono modificare realmente il tessuto socio economico del territorio?
Se fino a qualche anno fa si parlava di innovazione sociale solo in termini di risposta ad un bisogno concreto da parte di porzioni disagiate della società, ora innovazione sociale è tutto ciò che fa progredire la collettività, la rende attiva e propositiva per le azioni finalizzate al proprio cambiamento, ne fa soggetto partecipe del proprio futuro. Innovazione sociale significa quindi porre la società davanti ad una prova di maturità, renderla fabbro del proprio futuro, generando processi di partecipazione a tutti i livelli decisionali.
In questo modo, è così possibile generare reali influenze verso il sistema socio-economico nel suo complesso: se i cambiamenti partono dal basso, non possono che generarsi azioni che hanno stretti e forti legami con il territorio e con il vissuto di chi lo vive ed abita, valorizzando esperienze e rafforzando competenze già presenti e radicate. Non più quindi scelte calate dall’alto (top-down), spesso avulse dai contesti, estranee ai vissuti che raramente generano scosse positive ma molto più spesso rotture e rigetti.
Quali sono le nuove forme di associazionismo e rappresentatività collettiva? E quali possono essere i benefici che il cittadino, da subito, può riscontrare?
Vedo in questo un repentino cambiamento della società, dove le forme di rappresentanza collettiva si stanno sempre più spingendo verso l’associazionismo: sono andati in crisi, penso irrimediabilmente, le forme tradizionali di rappresentanza sociale, con particolare riferimento ai partiti ed ai sindacati (lo dimostrano i recenti dati sugli iscritti). Al contrario le associazioni, tutte, stanno raccogliendo questo forte bisogno di rappresentatività, fornendo la possibilità, ad ogni cittadino, di giocare un ruolo attivo, di sentirsi protagonista nella società, soprattutto con la realizzazione di azioni concrete, di progetti da realizzare, che abbiano una reale ed effettiva ricaduta. L’associazione non è più (solo) la bocciofila o la banda musicale del paese, ma è un nuovo soggetto sociale, forte, autorevole, indipendente: rappresenta una visione della società, un progetto di rinnovo della stessa, una forma fluida e dinamica attraverso la quale il cittadino riprende ad occuparsi di politiche, non di politica.
Le associazioni saranno ciò che sono stati i partiti politici negli anni ’60-’70, cioè la culla della classe dirigente del futuro: ecco perché è importante metterle fin d’ora al centro dei percorsi di rappresentatività delle istanze collettive, considerarle da subito una delle “parti sociali”, coinvolgerle nei processi decisionali ampi e complessi rispetto a cui il paese (ed anche la Sardegna) si trova di fronte.
Cagliari si sta trasformando in una smart city, sono tantissimi i progetti che ne indicano la direzione. Come l’utilizzo di queste nuove tecnologie migliora il rapporto tra le esigenze dei cittadini e la PA? Quali possono essere le reali ricadute sul territorio? Quanto ha consapevolezza l’amministrazione cittadina, nazionale di questi nuovi strumenti?
Non vorrei andare controcorrente, ma devo dire che il concetto smart city non mi piace: da grande programma di sviluppo, da idea di evoluzione positiva per gli anni futuri, perfetta sintesi fra tecnologia e processi di governance, è stato declassato a slogan, a vessillo che tutti cercano di mostrare, spesso senza capire neanche ciò che stanno facendo o perché. È sufficiente che una qualsiasi amministrazione cittadina faccia un normale intervento che abbia una minima connotazione tecnologica (cosa non lo è nel 2014…..), perché si senta autorizzata a parlare di smart city, di futuro, di innovazione: invece, banalmente, magari si tratta di un semplice intervento di manutenzione, tra l’altro dovuto e necessario.
Le smart cities sono una cosa seria e complessa, molto seria ed altrettanto complessa: il percorso per diventare smart è lungo, faticoso, spesso non semplice, perché prevede un cambiamento profondo nell’amministrazione e nei suoi uffici, nei comportamenti di tutti i cittadini, nelle abitudini e processi spesso radicati da anni. Essere una città smart significa trasformare i propri gangli vitali, quali la mobilità, i rifiuti, l’energia, il rapporto con la Pubblica Amministrazione, l’uso degli spazi pubblici, la gestione della macchina organizzativa, ect. Tale trasformazione deve però avvenire secondo un’ottica di sistema, dove il ruolo della pianificazione e programmazione è essenziale, dove il quadro complessivo e l’interconnessione fra funzioni rappresentano le basi di partenza per un reale progetto di cambiamento. Bisogna avere visione, strategia, metodo.
Il percorso, quindi, è lungo. Cagliari è solo all’inizio, molto all’inizio, deve fare ancora tanto, sia nelle scelte strutturali che in quelle di indirizzo. Anche in Italia non vedo smart cities: anzi a dir la verità, vedo ancora troppo poche “Città”: al contrario, invece, vedo molti, troppi aggregati urbani, disordinati, fragili, caotici, cresciuti in fretta e senza alcuna programmazione. Vedo progetti slegati fra loro, idee campate per aria che cambiano al cambiare del colore dell’amministrazione in carica.
Ecco perchè il termine smart city non mi piace, o meglio non mi piace più: è stato abusato, mal utilizzato, adoperato per tappare buchi e falle ben più grandi di cattiva amministrazione, di insipienza e di incuria. Vedo una forte contraddizione all’interno di amministrazioni che straparlano di smart city quando, ad esempio, i propri uffici non rispondono neanche alle mail dei cittadini (non parliamo del telefono), o i processi di trasparenza delle scelte amministrative sono inesistenti. Vorrei che ci si concentrasse di più sul reale significato di città, sul suo funzionamento, sulla competitività ed efficienza dei servizi, sulle risposte alle reali esigenze dei cittadini; vorrei molta più attenzione sul senso del vivere insieme, sulla condivisione di spazi, tempi, luoghi, attività, funzioni. Questo significa essere città, con o senza smart. Abbiamo ancora tanta strada da fare ….
Ti ringrazio