Peppino Impastato
“E’ l’ora dei forni e non si deve vedere altro che la luce”. Questa citazione di José Martì apriva uno dei capitoli della “Guerra di guerriglia” di Ernesto Che Guevara, e costituisce un appunto che Peppino Impastato volle, non senza motivo, trascrivere in una sua agendina tascabile del 1972. Il tempo, appunto, in cui egli fondava a Cinisi il circolo “Che Guevara” e dava un seguito più conveniente a quei cinque fogli volanti dell’ “Idea” che tante traversie avevano procurato ai loro giovani redattori, ostinati accusatori di un potere astuto e nemico. “L’ora dei forni” era anche il titolo di un documentario che Fernando Ezequiel Solanas aveva girato nel 1968 contro la violenza del suo Paese, l’Argentina, dove da lì a poco (1976) il generale Jorge Rafael Videla avrebbe instaurato uno dei più spietati regimi dittatoriali, costringendolo all’ennesimo esilio.
A distanza di oltre trent’anni da quella temperie, che certamente influenzò l’attività di Impastato, l’unica luce che si intravede, per tutto il periodo che arriva fino a quel tragico 9 maggio 1978, è la coerenza lineare della biografia e dell’ intera opera di Peppino: coerenza lucida, anticipatrice di tempi, emblematica di un’ esperienza in sintonia con il mondo di allora (il decennio che va dalla rivolta del ’68 a quella del ’77), condotta in un tessuto disgregato, aggredito da vecchie e nuove “patologie”. Come quella che nel 1970 si manifestò a Reggio Calabria, quando forze oscure, massoneria e fascisti, provocarono sei morti, in quello che passò per un incidente ferroviario dovuto all’incuria dei macchinisti. Ancora una volta, forze eversive e apparati dello Stato, furono complici e artefici, della destabilizzazione del sistema, per costruire nuovi equilibri, dalla parte dei poteri occulti e delle forze antipopolari.
La storia dei comportamenti e dei misfatti di queste forze è lunga e colpisce anche Peppino Impastato. Nel senso che egli fu doppiamente vittima e della mafia e di uno Stato e di mezzi d’informazione che vollero giocare contro di lui, collocando la scena della sua triste tragedia tra quelle delle Brigate rosse. Un tentativo miseramente fallito. Questa è una caratteristica della storia della nostra democrazia: l’essere, cioè, lo Stato, un soggetto capace di avere dentro di sé l’antistato, la compatibilità con gli elementi della sua disgregazione. E’ la democrazia il grande soggetto storico di questa parabola; la sua natura, e i suoi artefici ne rappresentano i veri moventi storici. Ma Peppino Impastato ha un vantaggio che tanti altri combattenti sul fronte della democrazia non hanno avuto: quello di essere nei gradini più bassi della scala sociale, e del sistema politico, nello spazio angusto e difficile da gestire, delle minoranze, dei perdenti senza storia, e senza nome. Per questo anticipa, solitario, il senso, della responsabilità e del dovere, in un’epoca in cui ormai questi valori sono perduti.
A distanza di trentacinque anni dalla sua morte, è doveroso fare una breve riflessione, per individuare il punto in cui siamo arrivati e per dare un senso al suo sacrificio. Forse rimane assai poco dei suoi ideali: un’antimafia che voleva essere unitaria e dal basso, ma che rimane disgregata e non riesce a costruirsi come una forza propositiva; un ripensamento profondo dei modi di fare cultura nel territorio; la capacità di aggregare suoi bisogni di emancipazione il mondo femminile, ancora oggi in gran parte succube di una cultura maschilista; la capacità di uscire dai contorni estetici di un’antimafia inamidata o salottiera. Peppino, in fondo, non faceva altro nel suo essere rivoluzionario antiretorico che raccontare il quotidiano, dare senso all’ovvio, a ciò che vediamo giorno dopo giorno, svelare l’ambiguità dei gesti e dei fatti, vederne il doppio profilo: quello che sta dalla parte della trasparenza e quello che sta sul versante occulto, nascosto, vietato all’occhio indiscreto.
Egli diede forma alla coscienza critica, non temendo per sé, ma dando a sé e ai suoi amici e compagni il senso della direzione, l’orientamento decisivo. La sua sfida ha il valore pedagogico che deriva dalla consapevolezza che il cambiamento verso la democrazia passa attraverso la rottura delle vecchie prerogative, delle consuete forme dei dominio territoriale, degli schemi dell’obbedienza e del dogmatismo. Seppe farlo come pochi altri.
Giuseppe Casarrubea