L’idea di un’Unione Europea come casa madre di tutti i popoli del Vecchio Continente sembrava aver dissolto la sua essenza per effetto della crisi.
Alcuni eventi delle ultime settimane hanno dimostrato il contrario. I moti di protesta pro – UE in Ucraina, la Serbia che si avvia alla meta storica dell’ingresso nell’Unione Europea e il viaggio del Premier turco Erdogan a Bruxelles per riaprire il discorso sospeso dell’integrazione, hanno risvegliato l’idea di Europa.
Martedì 21 gennaio 2014, l’Ue ha ufficialmente avviato con Belgrado i negoziati d’adesione che dovrebbero portare il paese balcanico a diventare il 29mo paese membro.
“Questo è un giorno storico per la Serbia”, ha commentato il primo ministro Ivica Dacic. “Probabilmente” con un’insostenibile leggerezza di appartenenza, il vicepremier Aleksandr Vucic aggiunge, “è il più importante giorno dalla seconda guerra mondiale”. Dalle parole dei due politici serbi “trasuda” la voglia di Europa e la guerra e le bombe del 1999 sganciate dai paesi europei sono molto lontane.
La difficile road map to EU del paese balcanico è stata costellata da una serie di richieste perentorie da parte dell’Unione Europea.
Basti pensare che il Trattato di stabilizzazione e Associazione (ASA Agreement) è stato firmato dalle autorità serbe il 29 aprile 2008 e soltanto la scorsa settimana è entrato in vigore dopo la ratifica da parte di tutti i Parlamenti nazionali degli Stati membri.
Gli ex – cattivi della guerra nell’ex – Jugoslavia in questi anni hanno cercato di soddisfare le richieste e le mille contraddizioni dell’Essere Europeo.
Una condizione d’ingresso nell’UE richiesta alle autorità serbe era una piena collaborazione con il Tribunale penale internazionale per i crimini commessi nell’ex – Jugoslavia per la consegna di tutti i presunti criminali di guerra ricercati. Gli ultimi che erano rimasti, Karadzic, Mladic e Hadzic sono sotto chiave all’Aja e adesso tutti i serbi sono diventati buoni.
Con un po’ di blasfemia storica e assurdità politica è come se si fosse chiesto nel 1957 ai tedeschi come condizione di ingresso nella Comunità Economica Europea, la consegna di tutti i criminali di guerra nazisti sottoposti a giudizio dal Tribunale penale internazionale di Norimberga.
Un’altra condizione è riconoscere il Kosovo nonostante 5 paesi dell’UE (Spagna, Romania, Slovacchia, Cipro e Grecia) non l’abbiano riconosciuto come Stato. Una bella contraddizione.
Il tutto è presumibilmente motivato dalla necessità di assicurare la sicurezza delle frontiere dell’Unione. Un confine tra due Stati è più solido di un confine amministrativo ovvero tra due regioni (Il Kosovo secondo la Risoluzione 1244 delle Nazioni Unite è ancora una provincia autonoma della Serbia).
Pertanto, la Serbia deve rinunciare alla sua storia e non importa se già nel 1389 nella piana di Kosovo Poljie, il Principe serbo Lazar difendeva l’Europa dalle orde turche; tanto meno importa se nel Kosovo ci sono più di 2.800 monasteri Ortodossi. La difesa dei muri della Fortezza europea viene prima di tutto anche della storia nazionale.
Une étape irréversible come già profetizzava il giornalista francese Paul Garde su Politique Internationale nel 2008 all’indomani della dichiarazione unilaterale di indipendenza del Kosovo.
La Serbia deve dire addio anche agli aiuti di Stato che hanno permesso l’instaurazione nel territorio nazionale di stabilimenti di importanti gruppi quali FIAT, Benetton e Golden Lady. L’essenza dell’Unione Europea è abbracciare un’economia competitiva.
In primis, tutto ciò significa riformare il mercato del lavoro e i costi dello Stato. Il rush finale verso l’Europa, ha portato lo scorso dicembre a molte manifestazioni per i tagli alla spesa sociale e all’introduzione di una forte flessibilità del lavoro in uscita. Un possibile paradossale sommovimento al contrario di quello ucraino, contro le misure da adottare per entrare in Europa.
Belgrado deve inoltre rinunciare al possibile sostegno finanziario russo e alle corsie preferenziale delle esportazioni a dazio zero verso Mosca. Importanti legami storici, culturali ed economici uniscono i due popoli e Mosca che costituisce ancora oggi il principale partner internazionale di Belgrado.
Anche in Serbia come in Ucraina, l’inverno è molto freddo e Gazprom possiede il 51% delle azioni della compagnia energetica serba NIS e gestisce tutto il mercato interno serbo. A buon intenditor poche parole.
Ma i serbi avranno fatto i loro calcoli e vista l’impossibilità di viaggiare a cui sono stati costretti per ben 18 anni (dal 1991 al 2009) magari emigreranno.
Nonostante tutte le summenzionate paranoiche congetture è l’ora di dare un caloroso benvenuto alla Serbia. Speriamo solo che non debbano ricredersi di così tanta voglia di appartenenza all’Unione Europea. Ma soprattutto speriamo che non si ricordino di tutte le bombe Nato che gli europei hanno sganciato su tutta la Serbia.
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