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L’INSOSTENIBILE | Nel cielo | Un romanzo di Octave Mirbeau (Skira, 2015) – Letto e recensito da Amedit

Creato il 05 ottobre 2015 da Amedit Magazine @Amedit_Sicilia

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Nel cielo | Un romanzo di Octave Mirbeau (Skira, 2015)

di Massimiliano Sardina

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Quando il cielo grava e preme sulla Terra come un’immensa lapide marmorea, l’uomo non può che sentirsi schiacciato. Ed è lo stesso uomo che, costretto tra la miserabile inquieta condizione terrena e il vano reiterato slancio celeste, cerca desolato la sua strada, una ragione alla sua breve e labile esistenza. L’uomo di Mirbeau è tremendamente solo, sperduto sotto uno sterminato cielo, un cielo saturo di luce, abbagliante, soffocante, insopportabile. È il cielo inseguito en plein air dai postimpressionisti, contemplato dai simbolisti e maledetto dai crepuscolari, un cielo già macchiato di nubi esistenzialiste e lampi d’avanguardie. L’eroe fiacco e fiaccato del romanzo si frantuma e si ricompone in tre distinti io narranti, ma la figura cardine è quella sensibile e sofferta del giovane Georges, paradigma della vittima predestinata che invano cerca di riscattarsi. Fin da bambino Georges deve fare i conti con un’insanabile alienazione, con un eccesso di sensibilità e di timidezza che lo rende vulnerabile a ogni forma d’interazione; la sua diversità (la sua non omologazione) lo rende un nemico agli occhi della sua stessa famiglia, una famiglia che continuamente lo umilia, lo mortifica e lo esclude.

«Sono nato con il dono fatale di sentire intensamente, di sentire fino al dolore, fino al ridicolo. Già dall’infanzia attribuivo al minimo oggetto, alla minima cosa inerte forme straordinarie e movimenti eccezionali (…) A dieci anni avevo a noia tutto, poiché tutto mi sembrava volgarità, menzogna, e mi dava il disgusto.» Georges è un enfant prodige trattato alla stregua di un idiot. Questa sua sterminata sensibilità gli rende impossibile ogni forma di comunicazione. «…Tutto era una sofferenza, perché non avevo ancora il sentimento, così rassicurante, così personale, della bellezza che abita le cose, della bellezza che, sola, è sufficiente a spiegare, a scusare questo malinteso e questo crimine: l’universo. Cercavo non so che cosa nella pupilla degli uomini, nei calici dei fiori, nelle forme così mutevoli, così molteplici della vita, e gemevo nel non trovarvi niente che corrispondesse al vago e oscuro e angosciante bisogno di amare che mi riempiva il cuore, gonfiava le mie vene, tendeva tutto il mio corpo e la mia anima verso abbracci inafferrabili, verso impossibili carezze.»

Georges è come un papavero tra i rovi: quando trema si ferisce, e quando sanguina viene deriso (un’orrenda segaligna zia tenterà persino di molestarlo sessualmente nel giardino di casa). Georges è incapace di reagire, può solo subire, cristallizzato in una sorta d’indolenza involontaria. «Per natura ero goffo e irresoluto. Il minimo problema mi coglieva sempre impreparato, ignorante di quel che occorreva fare e tremante all’idea di fare qualcosa.» Con l’andare degli anni, dopo il liceo, il progressivo affrancamento dai legami familiari e un primo impiego come copista presso un notaio, Georges imparerà a dominare il suo disagio, ma senza mai guarirne; un po’ di gioia e consolazione gliela offriranno i libri, in particolare certi passi di Pascal: “…Vedo questi spazi spaventosi dell’universo che mi opprimono, e mi trovo confinato in un angolo di questa vasta distesa senza sapere perché sono proprio qui e non piuttosto in un altro luogo (…) Intorno vedo soltanto infiniti che m’inghiottono come un atomo, come un’ombra che dura un istante senza ritorno…”

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In Georges Mirbeau stigmatizza la vittima sacrificale della famiglia, della scuola e, più in generale della società. «…Ogni società si costruisce interamente su questo fatto: l’annullamento dell’individuo. Le sue istituzioni, le sue leggi, i suoi semplici costumi, li accumula e li rende così formidabili solo per questo compito criminale: uccidere l’individuo che è nell’uomo, sostituire all’individuo, cioè alla libertà e alla rivolta, una cosa inerte, passiva, improduttiva. (…) Tutta la colpa è della società, che non ha trovato niente di meglio, per legittimare i suoi furti e soprattutto consacrare il suo potere supremo, che mantenere l’uomo in uno stato di completa imbecillità e di totale asservimento mediante questo ammirevole meccanismo di governo: la famiglia.» E ce n’è anche per il professore: «Tutto in lui prende un aspetto di gravità compassata, di dogmatismo positivista che anziché svilupparla uccide la curiosità nello spirito del bambino.» La cattiveria subita non trasforma a sua volta Georges in cattivo, ma lo infetta anzi della sindrome di Stoccolma: piangerà tutte le sue lacrime al capezzale dei genitori morti di colera. «…Mai avrei pensato di amarli tanto. Ci sono sentimenti sconosciuti addormentati nel cuore dell’uomo, così come il tesoro di un avaro sepolto nella terra. E si risvegliano soltanto sotto i grandi colpi della disgrazia.» L’ultimo colpo di coda glielo infliggeranno le perfide sorelle, che dopo averlo depredato di tutta l’eredità gli lasceranno solo quel tanto che basta per sopravvivere (ma anche qui Georges non batte ciglio e accetta senza protestare la nuova piega presa dal suo destino).

Sganciato definitivamente dalla famiglia (dai diritti e dai doveri) Georges si consegna a un’insperata sensazione di leggerezza, ed è qui, su questo terreno vergine in pieno sole che attecchirà la sua prima fioritura. L’incontro con Lucien, a Parigi, provocherà in Georges una vera rivoluzione interiore, una riformulazione, un’introduzione alla vita. Lucien è un giovane pittore espressionista, l’archetipo del peintre maudit alla disperata ricerca dell’arte pura, l’eterno insoddisfatto che consuma se stesso rinnegando una dopo l’altra le sue tele, rincorrendo un ideale informe e imperfettibile, un folle, spaventosamente umano, che troverà pace e quiete solo nella morte violenta. Il riferimento a Vincent van Gogh, morto suicida nel 1890, è fin troppo esplicito. In certe descrizioni la penna di Mirbeau ripercorre e si impasta nelle pennellate materiche vangogghiane, delineando «…alberi nel sole al tramonto con rami contorti e rossi come fiamme; oppure notti molto strane, pianure invisibili, figure scarmigliate e vagabonde sotto vortici di stelle, danze di luna ebbra e livida che facevano somigliare il cielo a una chiassosa balera di paese.» Verso Lucien, così pieno di vita da strariparne, Georges nutre una fascinazione che è quasi un’inconsapevole innamoramento; i due andranno a convivere in una piccola mansarda, ed è qui che Georges sperimenterà quell’angoscia deliziosa che tanto somiglia alla felicità. «Mi sentii meno smarrito, meglio protetto dalla sua presenza in quell’ignoto dove mi ero appena lanciato e che si agitava come un mare minaccioso intorno alla mia fragile persona e alla mia anima inquieta.»

In Lucien Georges crede di individuare una guida, una luce, un varco nel cielo: «Dimmi, consigliami, insegnami… Sono appena nato, sono come un neonato, più debole di un bambino… e mi sembra che le ossa del mio cranio si possano ancora modellare sotto le dita…» Ma Lucien sfugge, scivola via come una pennellata, come un guizzo di luce, fugge e poi ritorna, poi fugge ancora. Georges rimane chiuso nella piccola mansarda ad aspettarlo, ma al rientro da ogni vagabondaggio Lucien appare sempre più provato, sempre più folle e demotivato «…Sì, soffro crudelmente all’idea sempre più radicata in me che l’arte è forse solo un inganno, un’imbecille mistificazione e qualcosa di peggio ancora: una pigra e ipocrita diserzione dal dovere sociale!» Il pittore troverà una pace illusoria e temporanea nelle campagne di Chiuse di Porte-Joie, tra le rovine di una rocca, nel bel mezzo di un nulla fatto solo di cielo, «un cielo immenso, a perdita d’occhio, a perdita di sogno.» Georges sperimenterà l’amore, un amore tanto triste quanto indefinito, con una povera portinaia, un amore mortificato, deludente, come chiuso in una parentesi durante l’assenza di Lucien. E Lucien tornerà per un’ultima volta, tornerà per morire nell’impossibile cielo della sua impossibile opera d’arte.

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Scrive bene Pierre Michel, Presidente della Fondazione Octave Mirbeau, quando definisce Dans le ciel  “un’opera anomala”, non tanto per la struttura (tutto sommato tradizionale, con la narrazione in prima persona, i dialoghi e gli inserti epistolari), ma per la coraggiosa commistione di contenuti e implicazioni. Il romanzo uscì a puntate su “L’Écho de Paris” tra settembre 1892 e maggio 1893 e conobbe forma definitiva in volume quasi un secolo più tardi, nel 1989 (Éditions de l’Échoppe). Mirbeau fissa un frangente cruciale, a cavallo tra ‘800 e ‘900, a due anni dalla nascita del cinema, e fotografa impietosamente certi malcelati disagi in seno alle sperimentazioni artistiche, quelle che dal postimpressionismo si sarebbero poi riversate nelle acque agitate delle Avanguardie novecentesche. Da un lato c’è l’uomo, sempre in balia di una natura cieca e matrigna, ma più ancora di una società cannibalica e omologante, e dall’altro c’è l’artista, che tenta di farla franca con l’escamotage dell’arte ma che più dell’uomo alla fine perisce. La tragedia dell’uomo (vedi i riferimenti a Pascal) si riflette emblematicamente in quella dell’artista: la felicità in vita è irraggiungibile come la perfezione in arte. Non è chiaro perché Mirbeau abbia tenuto quest’opera nell’ombra, «…forse – scrive Pierre Michel nella postfazione – ha temuto di dare un’immagine negativa delle ricerche estetiche dei suoi amici pittori, già stroncati dall’opera di Zola; forse gli è sembrato troppo pessimista e troppo scoraggiante, in un momento in cui lui stesso si dibatteva in un’interminabile crisi (letteraria, politica, esistenziale e coniugale);» Tuttavia è molto più probabile, come ipotizza lo stesso Michel, che le ragioni di quest’esclusione vadano ricercate sia nella legittima insoddisfazione dell’autore sia nella natura specifica del testo, scritto, lo ricordiamo, a singhiozzi per “L’Écho de Paris”; un punto debole dell’opera è certo il finale, mozzato (quasi in analogia all’amputazione della mano “inabile” dell’artista), troncato su un prosieguo che ci si sarebbe forse aspettato più generoso di sviluppi.

Al di là di queste osservazioni l’attenzione e lo stupore sono tutti per la grande forza letteraria di Mirbeau – cui rende merito l’ottima traduzione di Albino Crovetto (già traduttore de Le perle morte e altri racconti per Il canneto editore, 2015) – capace di concentrare il senso dell’opera in una singola frase: «Non è bene che l’uomo si allontani troppo dalla vita, perché la vita si vendica.»

Massimiliano Sardina

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Cover Amedit n. 24 - Settembre 2015

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“Noli Me Tangere” omaggio a Pier Paolo Pasolini.
by Iano 2015

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