E’ indubbio che tale ideologia internazionalista si costituisce di fatto, comunque si rinsalda, con la visione del capitalismo caratterizzato fondamentalmente da due classi principali: borghesia e proletariato. Non si è mai fatta una vera distinzione tra quest’ultimo e la classe operaia; e, in definitiva, si è sempre trattato del lavoro salariato nei settori detti produttivi (di valore e plusvalore), in gran parte identificati con la fabbrica meccanizzata, risultato ultimo della “rivoluzione industriale”. L’idea fondamentale è che questi lavoratori, in tutti i paesi capitalistici, fossero sfruttati in quanto appunto veniva da loro estratto il pluslavoro in forma di valore (in definitiva, poi, quello che orienterebbe lo scambio mercantile). I proletari (gli operai, i lavoratori salariati), in quanto sfruttati, non avrebbero Patria. I loro interessi fondamentali, di sfruttati che dovrebbero ergersi come un blocco unico di contro ai loro sfruttatori (la borghesia), sarebbero i medesimi in ogni paese dominato dal rapporto capitalistico. E poiché il capitalismo era la formazione sociale vincente e che, secondo l’opinione diffusa, si sarebbe progressivamente espansa a macchia d’olio in tutto il mondo, i proletari (operai) avrebbero costituito infine un’unitaria e compatta classe di diffusione, appunto, mondiale.
Su questa base si costituì la Prima Internazionale (1864) e poi la Seconda (1889), il cui principale partito era quello socialdemocratico tedesco. A parte l’effimero episodio della Comune (di Parigi, 18 marzo-28 maggio 1871) in seguito alla sconfitta della Francia ad opera della Prussia – un episodio fin troppo sopravvalutato e quindi foriero proprio di tutta l’ideologia che ha fatto sempre pensare a improbabili, e mai nemmeno iniziate, “rivoluzioni proletarie mondiali” – il cosiddetto movimento operaio ha sempre avuto una rilevanza di gran lunga prevalente nell’ambito della lotta sindacale per migliori condizioni di lavoro e di vita degli operai e salariati in genere. In questo senso, quello tedesco è proprio il più paradigmatico di tutti, anche se l’italiano ha avuto la sua notevole importanza. Di episodi rivoluzionari non se ne sono visti in pratica più, salvo che in condizioni di particolarissimo disagio (in seguito alla prima guerra mondiale) e condotti da minoranze; si pensi, ad es., alla rivolta spartachista del 1919 nella Germania, pesantemente sconfitta sul piano bellico, vessata dai Trattati di pace, in condizioni che porteranno alla devastante crisi dei primi anni ’20, ecc. Quella rivolta fu schiacciata in pochi giorni, con la sostanziale approvazione dei socialdemocratici (in netta maggioranza nel controllo degli operai); tutto sommato si può considerare una sorta di breve acutizzazione del rivolgimento iniziato nel novembre 1918 (quello in cui Lenin aveva riposto grandi speranze, come si evince dalla frase finale de “La rivoluzione proletaria e il rinnegato Kautsky”), sfociato nella “Repubblica di Weimar”, i cui demeriti non saranno mai abbastanza criticati.
In definitiva, la storia della Seconda Internazionale, cardine del “movimento operaio” nei paesi a capitalismo ormai sviluppato, si confonde con la lotta sindacale, con l’inserimento di propri rappresentanti nelle Istituzioni (prima fra tutte il Parlamento) di una società, in cui non mutarono gran che i gruppi dominanti. Semmai, partito e sindacato degli operai furono trampolino di crescita di nuclei politici professionali, generalmente cooptati tra questi dominanti, andando a costituire la loro frazione di “sinistra”, in qualche modo riformista onde mantenere il controllo delle “masse lavoratrici”, semplice fonte di appoggio elettorale al loro pieno inserimento nelle suddette Istituzioni. Quanto all’internazionalismo (proletario), rimase pura etichetta fino al Congresso di Basilea (1912), in cui ancora coloro che pretendevano di rappresentarlo concionarono contro l’imminente scontro bellico condotto dalle “borghesie imperialiste”, e imposero delle risoluzioni contro la guerra del tutto dimenticate nel giro di pochi mesi.
Nell’agosto del ’14 l’Internazionale era ormai “cotta” e si sciolse ufficialmente nel ’16. La cosiddetta “Internazionale socialista”, nata nel secondo dopoguerra, non ha più nulla a che vedere con l’internazionalismo proletario. E’ riconosciuta la perfetta integrazione della sedicente classe operaia (in realtà, la massa del lavoro salariato, divisa per settori di attività lavorativa) nel sistema di rapporti detto capitalistico. I partiti socialdemocratici avrebbero voluto, tramite soprattutto la fondazione di sindacati (anch’essi suddivisi per settori lavorativi), rappresentare queste masse all’interno del “gioco democratico”, in realtà mirato principalmente al lato elettoralistico, che si svolge comunque nell’ambito della normale conflittualità tra gruppi politici. Questa conflittualità, che non comporta affatto la contrapposizione amico/nemico, si apre a continue, talvolta estenuanti, opere di mediazione e composizione sfociando in redistribuzioni del reddito prodotto e del potere governativo. Alla fin fine, il “movimento operaio” ha condotto alla netta divisione dei compiti tra partito, divenuto semplicemente un gruppo politico aperto a particolari forme di rappresentanza di dati gruppi dominanti nel paese (pur essi in conflitto fra loro per il controllo degli apparati statali nella loro apparente unitarietà), e sindacato maggiormente specializzato nella difesa dei vari settori delle masse salariate.
Tornando indietro, nel 1919 venne fondata la Terza Internazionale, costituita dai partiti comunisti in quanto formazioni staccatesi dalla socialdemocrazia in seguito all’esempio della Rivoluzione d’Ottobre, erroneamente presa per il detonatore e innesco della tanto attesa rivoluzione proletaria mondiale. Nulla di tutto questo. Nei paesi a capitalismo sviluppato, dove appunto era ben più numerosa la “classe” operaia, questi partiti rimasero sempre minoranza rispetto a quelli socialdemocratici. I partiti comunisti funzionarono di fatto come “comparti staccati” dei gruppi dirigenti dell’unico paese (Urss) in cui uno di essi prese il potere; e si adoperarono per boicottare, per quanto possibile, ogni azione aggressiva o comunque di disturbo offensivo nei confronti del paese in questione. In quest’ultimo gli operai erano un’infima minoranza e, proprio per questo, inizialmente, nessuno pensò che la rivoluzione ivi verificatasi fosse nulla più che l’inizio della rivolta proletaria generalizzata. Solo in seguito allo spegnersi di ogni speranza del genere, avvennero nella politica e anche nella teoria di riferimento (il marxismo) mutamenti piuttosto significativi pur se poco avvertiti e meditati; in genere presi erroneamente quale attaccamento ad una presunta ortodossia, già da lungo tempo intaccata invece (lo vedremo meglio nella seconda parte di questo lavoro).
Del resto, anche questi partiti comunisti, in specie dopo la seconda guerra mondiale, subirono nei paesi a più alto sviluppo capitalistico un processo di netta trasformazione. Solo in Italia, d’altronde, un partito del genere fu veramente e stabilmente maggioritario (rispetto alla socialdemocrazia) nel suo seguito presso i lavoratori salariati. Ed è qui che però esso subisce i più radicali cambiamenti “di natura”, tanto da divenire infine il più supino rappresentante del predominio del paese capitalistico centrale (gli Stati Uniti) nel momento in cui viene a cadere il mondo bipolare e si sfalda del tutto l’Urss, ridiventata Russia e non più in grado di reggere un confronto con lo storico avversario in termini di potenza.
E’ ovviamente assai interessante constatare come il comunismo, nato dalla frattura con la socialdemocrazia all’epoca della prima guerra mondiale per ergersi in difesa dell’illusorio internazionalismo proletario, sia stato proprio quello che più di ogni altro, alla fine, è divenuto in almeno uno dei paesi del capitalismo avanzato il partito politico di riferimento dei settori industriali favorevoli alla semplice complementarietà con il sistema economico e politico predominante (statunitense appunto). Tali settori già nella seconda guerra mondiale avevano fatto da battistrada (almeno dalla fine del ’42) al cambio di campo dell’Italia in guerra; sono dunque sempre stati fondamentalmente antinazionali. Ed è qui che si dovrà innestare una riflessione teorica non tanto semplice; dall’illusione dell’internazionalismo degli “sfruttati” dal capitale alla rappresentanza politica di settori imprenditoriali (e non solo) che, per interesse loro specifico, premono per una netta subordinazione ad un sistema economico-politico preminente.
2. Ricordo brevemente due episodi di ulteriore dimostrazione di come l’internazionalismo operaio non abbia mai funzionato. Innanzitutto, durante l’aggressione degli Usa al Vietnam, i “lavoratori” statunitensi furono duramente contrari alle manifestazioni studentesche contro la guerra. Difficilmente, si poteva manifestare favore reale, almeno da parte di quelli che la pensavano come me, nei confronti degli studenti. Non credo fossero accettabili le fesserie sessantottarde di quei tempi del tipo: “facciamo l’amore e non la guerra”, “mettiamo i fiori nei nostri cannoni”, ecc. Tuttavia, ci furono opposizioni più nette e precise, che si saldavano anche con la critica al sistema capitalistico, all’imperialismo. In ogni caso, non si può negare che l’attacco al movimento studentesco da parte di quello operaio negli Usa (e non solo del resto) nasceva proprio da una adesione di quest’ultimo al sistema che garantiva discreti livelli di vita; e la solidarietà “internazionale” fra “oppressi” non esisteva nemmeno in briciole.
Tornando al movimento del ’68, è indubbio che una maggiore virulenza critica nei confronti del sistema sociale capitalistico vi fu soprattutto in Europa e in modo particolare in Italia, dove fu forte pure la contestazione dell’atteggiamento “morbido” e opportunista del PCI. Non ci furono però mai posizioni veramente consapevoli di adeguata critica alla politica detta con terminologia vaga imperialistica. Si è sempre confuso l’imperialismo con il colonialismo, sia pure nella versione “neo” tipica del capitalismo Usa, un capitalismo assai diverso da quello borghese del vecchio colonialismo. Già nel 1916, Lenin aveva criticato l’identificazione kautskiana di imperialismo con colonialismo, mettendo in luce – sia pure senza giungere a vera consapevolezza teorica e dunque ad una radicale revisione dell’intero impianto analitico del capitalismo quale mero “modo di produzione” e dunque caratterizzato fondamentalmente dalla proprietà dei mezzi di produzione – come l’imperialismo fosse una fase di policentrismo acuto con necessità di resa dei conti per affermare una riconfigurazione dei rapporti di forza tra diverse formazioni capitalistiche particolari (i vari paesi).
Dopo la seconda guerra mondiale, nel mondo bipolare affermatosi, mai si capì che la subordinazione dei paesi detti sottosviluppati al centro capitalistico Usa – che via via distrusse il vecchio colonialismo anglo-francese assoggettando i paesi già colonizzati alla propria predominante influenza – non era, per lo meno non prevalentemente, ciò che si è invece sempre pensato: una forma di sfruttamento neocoloniale di quei paesi. In realtà, l’azione Usa mirava in modo del tutto speciale ad una dislocazione delle forze con radicale ridiscussione delle sfere d’influenza in vista dell’affrontamento con il polo, erroneamente definito “socialismo” (errore commesso sia da coloro che lo dirigevano o appoggiavano sia da coloro che lo combattevano), che infine fu sconfitto nel 1989-91. Siamo andati avanti per decenni e decenni in questa obnubilazione ideologica completa; e non è che adesso qualcuno, a parte il sottoscritto, si stia sognando di cominciare a riconsiderare l’intera questione.
In ogni caso, la lotta antimperialista è stata confusa e intrecciata con la presunta liberazione dei paesi “neocolonizzati” (presunti tali) dallo sfruttamento del paese capitalistico centrale. Si arrivò all’assurdità, da parte di alcuni marxisti affetti da una degenerazione teorica perfino incredibile, di ritenere che, se i paesi del cosiddetto Terzo Mondo si fossero affrancati da questo presunto sfruttamento, il sistema capitalistico del primo mondo sarebbe crollato. Naturalmente, poi, si dovette in qualche modo pensare, per giustificare la rottura tra Urss e Cina e la polemica maoista contro quello che venne considerato il “nemico principale”, ad una forma di imperialismo (il socialimperialismo) di tipo sovietico. Era tuttavia impossibile non accorgersi che i paesi sottoposti a tale forma di sedicente imperialismo costavano all’Urss una quantità impressionante di risorse, causa non primaria ma nemmeno ininfluente del suo veloce tracollo. Anche questo, dunque, è stato uno dei continui e “grandiosi” fraintendimenti cui è stata sottoposta la storia del ‘900 con tutti i suoi conflitti.
E che dire della questione algerina e della lotta di liberazione del Fronte Nazionale contro la Francia? Anche in tal caso, sembrava che la questione fondamentale fosse quella coloniale della necessità di non perdere lo sfruttamento di quel paese per il maggior benessere della popolazione francese. E i comunisti, sempre ufficialmente internazionalisti, furono molto “timidi” nell’opposizione alla tenace occupazione francese di quel paese e alle dure repressioni ivi effettuate. E’ ovvia la presenza dell’errata concezione secondo cui lo sfruttamento coloniale è decisivo per migliorare le condizioni di vita nel paese predominante. I comunisti francesi temevano di perdere influenza elettorale – e proprio presso i suoi votanti principali, gli operai, per nulla interessati al loro presunto dovere internazionalista – e dunque ammorbidivano il loro spirito antimperialista (sempre intriso della confusione tra imperialismo e colonialismo).
C’è voluto il “reazionario” De Gaulle (e il fatto che tale lo si considerasse dalla “nostra” parte dice già molto) per comprendere che era meglio ritirarsi da quel compito. E non certo per spirito antimperialista (anticolonialista), che al Generale (e per fortuna!) non interessava un bel nulla, ma per liberare il suo paese da una pesante palla di piombo al piede: uno spreco di risorse che lo indeboliva e rendeva sempre più dipendente dall’atlantismo, cioè dalla Nato, cioè dagli Stati Uniti. De Gaulle puntava a ridare un minimo di autonomia alla Francia cercando di conquistare una certa elasticità nella politica estera. Anche la Germania con i socialdemocratici (Brandt e Schmidt) tentò qualcosa del genere, attuando la ostpolitik, ma fallì quasi subito poiché non si poteva ottenere tale risultato tramite la sola politica governativa; occorreva anche la cosiddetta force de frappe (una certa vigoria militare). I risultati gollisti sono stati maggiori ed un po’ più lunghi nel tempo, ma non potevano non rientrare di fronte all’isolamento europeo di tale politica e alla forza preponderante degli Usa; e per di più in un mondo costretto dalla camicia di forza del bipolarismo.
Sarebbe oggi da ritentare un certo cammino. Seguendo però, ovviamente, sentieri diversi. Il bipolarismo è caduto; il che, a mio avviso, è tutto sommato positivo, altrimenti saremmo rimasti cristallizzati per chissà quanto tempo ancora. La Russia è però molto più debole dell’URSS e quindi non può troppo impensierire gli Usa. Quanto agli altri paesi del presunto BRICS, ivi compresa la sopravvalutata Cina, hanno ancora da “mangiare un bel po’ di pappa” prima di rappresentare dei veri antagonisti degli americani. Tuttavia, insisto nel dire che il multipolarismo (meglio forse dire ormai multilateralismo) è in marcia. E dobbiamo orientarci nella critica e un domani, qualora fosse possibile, nella lotta per favorire tale processo e contribuire all’indebolimento della supremazia statunitense. Non dobbiamo più appoggiare eventuali lotte del lavoro salariato? Ci mancherebbe altro; l’importante è però la consapevolezza che si tratta solo di conflitti per la redistribuzione del prodotto sociale, per difendersi dal consistente arretramento delle condizioni di vita e di lavoro.
La contraddizione principale – sulla quale sviluppare tuttavia la ben nota contrapposizione con il nemico, valutando tatticamente tutte le “alleanze” possibili – deve tuttavia svilupparsi sul piano della politica estera. E tale contraddizione, che esige azione pratica ma anche una revisione storico-teorica assai consistente di quanto pensato e perseguito nei cento e passa anni precedenti, deve in questa fase riafferrare il principio dell’autonomia nazionale di dati paesi, in particolare in Europa, dove la UE si è formata, e si vorrebbe continuare a svilupparla, soltanto in quanto capace di azioni di fatto complementari rispetto a quelle degli Stati Uniti, di cui ci si rende complici e succubi. Comunque, qui inizia un altro discorso, che esula da quello esposto in questo breve pezzo.