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Ci sono tanti produttori agricoli nel Salento che non riescono ad entrare nella Grande Distribuzione Organizzata, quella degli Ipermercati, quella che ti sbatte sullo scaffale ogni sorta di ben di Dio che proviene da ogni parte del Mondo.
In questo periodo chi coltiva la verdura come i finocchi, le rape (brassica rapa sylvestris), la cicoria catalana (una specie di puntarelle romane) si mette a vendere per il mercato locale, per quel Circuito Corto del Contadino e la restante parte la colloca attraverso i mediatori che fanno contratti con la GDO (Grande Distribuzione Organizzata).
E se producessimo per l’estero? Già alcuni imprenditori lo fanno, si sono organizzati ed esportano in Danimarca. Sono agricoltori che hanno scelto l’internazionalizzazione; per capirci il loro vendere all’estero non è un obbligo che deriva dal non riuscire a vendere in Italia. Insomma non è che l’internazionalizzazione risolve la crisi!
Cosa sta accadendo nel mondo?
Per vendere nel Mondo devi essere attrezzato per le esigenze globali. Cosa voglio dire? Che negli USA saltano quattro banche al mese per i titoli tossici che ancora sono nel mercato e che assomigliano a quei mutui subprime della Lehman Brothers Holdings Inc. Ma il peggio deve ancora venire perché sono scoppiati solo un terzo dei titoli tossici, gli altri due terzi scoppieranno nei prossimi due anni.
C’è chi guadagna molto e chi non vende nulla
Oggi alcuni agricoltori riescono a vendere moltissimo all’estero tanto da non riuscire a soddisfare gli ordini e altri che invece, pur avendo prodotti eccellenti non riescono a vendere un bel nulla. Perché? Prima della crisi chi esportava esigeva il pagamento anticipato. I russi ad esempio pagavano in anticipo. Ed ora? Ora i russi chiedono delle dilazioni di pagamento e chi non è attrezzato non fa affari con loro. Anche chi paga in anticipo lo fa magari solo per il primo ordine, ma dal secondo ordine in poi l’importatore chiede dilazioni di pagamento in mancanza delle queli abbandona l’affare. Quindi non basta avere un prodotto buono, per vendere all’estero bisogna dare servizi.
L’esportazione dell’agroalimentare
Il 60% delle esportazioni del nostro paese sono nell’Unione Europea e questo accade perché c’è il mercato unico che è più facile da affrontare per chi è meno attrezzato.
La Cina esporta in tutto il Mondo e le sue importazioni dall’Italia sono irrisorie. E’ il cruccio globale del momento. Eppure con i cinesi si può! Come dici? Hai saputo che sono solo degli imitatori eccezionali? Hai ragione! Ti hanno detto che se esporti prodotti a loro dopo il secondo ordine non ti chiedono più nulla perché lo imitano? E’ vero! Ma anche se l’alimentare rappresenta solo il 3% dell’esportazione italiana la Cina è un’opportunità proprio per l’agroalimentare.
Per esportare in Cina: Zone Franche o una joint venture con una società cinese
In Cina stanno costruendo città fantasma e stanno creando la bolla immobiliare. E se vuoi lavorare con i Cinesi devi trovare un partner e magari mettere 500mila dollari a testa creando una joint venture. Si tratta di creare una società mista, è un accordo di collaborazione tra due o più imprese, la quale unione definisce un nuovo soggetto giuridicamente indipendente dalle imprese co-venturer (se si parla di joint venture non equity; qualora invece l'affare non dia vita ad una nuova azienda con propria personalità giuridica si parlerà di j.v. equity). Se hai l’obiettivo di vendere l’agroalimentare della dieta mediterranea in Cina si tratta di elaborare insieme un progetto comune di natura industriale o commerciale e che vede l'utilizzo sinergico di risorse apportate da ciascuna singola impresa partecipante, ma anche un'equa suddivisione dei rischi legati all'investimento stesso ovvero un'equa ripartizione delle possibili perdite o utili. La zona franca per eccellenza è Hong Kong
Se vuoi esportare il tuo prodotto negli Usa devi investire nella promozione
Il comparto “agro-alimentare e vini” con 733 milioni di $ rappresenta l’ 8,3% delle esportazioni negli USA ( i vini da soli 282,06 milioni di $ il 3,2% dell’ export totale italiano ). Ma il vero problema è rappresentato dalla grande presenza, sul mercato USA, di prodotti che utilizzano impropriamente nomi ed indicazioni geografiche italiane (cd “agropirateria”). Tali prodotti occupano un grande share del mercato USA per i prezzi più contenuti ma anche per scarsa informazione del consumatore, spesso confuso da etichettature ingannevoli. Secondo stime di settore, solo 1 dollaro su 10 spesi in tali prodotti va effettivamente a produttori italiani. Negli USA i nomi più utilizzati sono: Chianti, Marsala, Asiago, Gorgonzola, Grana Padano, Parmigiano/Parmesan e Parma Ham. Ad utilizzare tali nomi sono spesso produttori USA di origine italiana.
È fondamentale l’aspetto della promozione soprattutto su riviste specializzate che richiede investimenti a prescindere dal prodotto. (continua)
di Antonio Bruno
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