“L’intervista” a Carlo Bonini (1ªparte)

Creato il 19 gennaio 2011 da Yourpluscommunication


Perchè oggi è stato giudicato sbagliato parlare di Vallanzasca?

Io credo che la discussione che accompagna il ritorno sulla scena di una figura come quella di Vallanzasca, non sia una polemica o una discussione nuova. Tutti i criminali, tutti i banditi, chiunque abbia “scavato a fondo” nell’immaginario collettivo di un Paese, rendendosi responsabile di crimini anche efferati, necessariamente pone un problema ad una collettività: quello di misurarsi con ciò che ha fatto o di rimuoverne il ricordo. Siccome l’Italia è un Paese che fa fatica a misurarsi con le sue pagine più complicate, a maggior ragione con le pagine nere, anche quando parliamo di un bandito nel senso tradizionale del termine. Quando poi quell’uomo torna a fare capolino sulla scena pubblica, volente o nolente, perché ad esempio gli vengono concessi dei benefici carcerari, quindi esce dopo trent’anni da un carcere o perché viene pubblicato un libro o perché viene fatto un film, ci troviamo in un Paese che non è abituato a misurarsi su ciò che è stato, con se stesso con le proprie contraddizioni, con i propri lutti, il Paese reagisce, spesso, in modo scomposto.

Talvolta comprensibilmente altre volte, per pura convenienza, per senso comune e quindi “è meglio non parlarne”. Da questo punto di vista, Vallanzasca, non è un’eccezione. Nella storia recente del nostro Paese, non ricordo discussioni che hanno accompagnato l’uscita dal carcere, il ritorno sulla scena pubblica, sia pure temporaneamente, di uomini che si sono resi responsabili di reati anche molto gravi, che non abbia avuto questo segno. Indice  che, secondo me, ha una forte controindicazione: non aiuta quasi mai una discussione serena su ciò che è stato e, quindi, non aiuta quasi mai questo Paese a costruire una memoria collettiva condivisa.

Quando e perché i criminali diventano mito?

Data una premessa cioè che il male esercita da sempre su chiunque una forma di profonda attrazione, il male attrae anche e soprattutto chi è incapace di farne perché in questo modo lo si esorcizza, guardare in fondo al male è un modo per vaccinarsi. Questo il motivo per cui la cronaca nera, i fatti di sangue, anche quelli apparentemente meno controversi o antropologicamente o socialmente meno ricchi di spunti, attraggono molto l’attenzione dell’opinione pubblica. Detto ciò e tenendo a mente questa premessa, un criminale, un bandito, un assassino, diventa un mito nel momento in cui attorno a quest’uomo o questa donna si coagulano sogni, aspettative, ricordi, memoria di un pezzo del Paese.

Aldilà di quanto quel singolo criminale in effetti è stato, noi parliamo di Vallanzasca e nel suo caso, egli è uno di quegli esempi in cui intorno alla figura di un uomo, spesso aldilà delle sue intenzioni o con la sua consapevole complicità, intorno a ciò che lui ha fatto, si è coagulata una proiezione collettiva che ne ha fatto quello,poi, che lui è oggi tanto che, mi è capitato più volte di pensare, anche nel raccontare la sua storia, che Vallanzasca sia prigioniero del suo mito, anche aldilà del narcisismo con cui lui stesso per lungo tempo ha coltivato quella sua immagine pubblica. C’è però, secondo me, un dato oggettivo: un bandito può diventare un mito nel momento in cui nella sua storia, nel suo modo d’essere, nel suo modo di proporsi all’opinione pubblica, precipitano dei modi d’essere, dei costumi, un modo di sentire di un pezzo del Paese; oppure quando sulla storia criminale di uomo viene proiettato un desiderio inespresso di un pezzo di società.

Nel caso di Vallanzasca questo è avvenuto. Se uno ritorna indietro e ripensa a cos’era l’Italia nella prima metà degli anni ’70, era  un Paese che usciva reduce dagli anni del boom, stava per infilarsi sul sentiero buio di una stretta economica, la società che cambiava rapidamente nei costumi, nel modo d’essere, nel modo di pensare, improvvisamente appare questo bandito “guascone” che sconvolge  e rompe i riti della vecchia mala milanese, che ha un modo molto moderno di commettere crimini, che sfida sul piano di una nuova modernità i mezzi di comunicazione, i vecchi cronisti di nera, i vecchi marescialli, le questure, le caserme dei carabinieri.

E’ per questo che intorno alla sua figura, Vallanzasca finisce, consapevolmente o inconsapevolmente, nel diventare un magnete che attrae queste spinte e finisce con l’essere una delle rappresentazioni, uno dei quei volti del nostro Paese, e nello specifico, della Milano dei primi anni ’70. Una Milano che comincia a conoscere le bische, il gioco d’azzardo, i soldi facili, le belle macchine, che esce dalla dimensione anche pubblica castigata. Vallanzasca è eccessivo anche nel presentarsi, nel vivere. La sua vita è un eccesso continuo e questo fa sì che la sua storia criminale diventi una storia criminale assolutamente “eccentrica” rispetto a quello a cui il paese è abituato.

Quanta colpa per questo continuano ad avere i media o i “Pennivendoli” come li chiamava Vallanzasca?

I media nella costruzione dell’immagine e del personaggio Vallanzasca hanno svolto un ruolo fondamentale. Anche Vallanzasca gioca con i media. Li disprezza ma allo stesso tempo forse è uno dei primi banditi italiani che comprende la straordinaria potenza di una dimensione mediatica del crimine. Vallanzasca si diverte a chiamare i cronisti di nera che scrivono male di lui, a correggere articoli che ricostruiscono una rapina piuttosto che un sequestro. Vallanzasca trova il tempo dopo la sua ultima rocambolesca fuga dall’oblò dal porto di Genova, mentre sta percorrendo la strada che lo porta alla sua ultima tappa da uomo libero verso Trieste, verso Fiume, di fermarsi e di telefonare a Radio Popolare che sta facendo una diretta sulla sua fuga, per interloquire al telefono con il moderatore, quindi è vero che lui nutre nei confronti del lavoro della stampa un profondo disprezzo, perché quasi tutti i banditi vedono nei giornalisti delle mezze guardie.

Questo rende il giornalista ancora più spregevole perché non è una guardia ma una mezza guardia quindi in qualche modo il peggio del peggio, cioè al giornalista non viene riconosciuta autonomia di giudizio, è poco più che una buca delle lettere, delle veline della questura ma, Vallanzasca, proprio nella consapevolezza della potenza dello strumento dei media decide in qualche modo anche lì di rompere il gioco ponendosi come interlocutore diretto, anziché farti raccontare di me da chi mi dà la caccia te lo racconto io chi sono e, anche questo è un altro dei tratti della modernità del bandito Vallanzasca che per altro, contribuisce nel periodo in cui si rende responsabile dei reati che tutti conoscono, a gonfiarne l’immagine pubblica e fargli superare progressivamente quella linea sottile che separa una figura reale da in una figura mitologica.

Mi è capitato, scrivendo il libro con lui, che mi abbia fatto vedere le lettere che riceveva in carcere dalle sue ammiratrici, dove si coglie la percezione, assolutamente fuori dalla realtà che quell’uomo era riuscito a proiettare all’esterno, questo grazie però ai “Pennivendoli” che gli rendono un servizio straordinario cioè farlo diventare quello che altrimenti non sarebbe stato.

Alessandro Ambrosini

continua…

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http://nottecriminale.wordpress.com/2011/01/27/%E2%80%9Cl%E2%80%99intervista%E2%80%9D-a-carlo-bonini-2%C2%AAparte/


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