Lei scrive di Vallanzasca e scrive ‘Acab’, acronimo di all the cops are bastards, il suo è un tentativo per richiamare alla riflessione sullo stato e l’antistato in tempi più maturi per capire?
Io credo che per raccontare il nostro tempo esista una porta d’accesso principale: il racconto di uomini in carne ed ossa, di storie. E’ evidente che la prospettiva è sempre quella di un frammento ma, spesso, in questi frammenti, spesso si rintracciano dei percorsi collettivi. Allora l’ambizione nel raccontare la storia di Vallanzasca era anche quella di raccontare un pezzo di storia di questo Paese e sicuramente, anche la percezione che questo Paese ha avuto di ciò che potesse essere l’antistato. Raccontare Acab e quindi raccontare la storia di tre poliziotti del reparto celere, con una cultura politica di destra che improvvisamente si scoprono allo specchio rispetto ai loro servizi di ordine pubblico agli stadi piuttosto che sul ciglio di una discarica, è a suo modo anche questa la maniera per raccontare che cosa si muove nel fondo minaccioso e nero che c’è nel nostro paese.
Prima facevo riferimento alla differenza tra la violenza degli anni ’70 e la violenza di oggi. Dieci anni fa, raccontando la vicenda di Vallanzasca, avevo l’idea di muovermi all’interno di un paesaggio dove al suo orizzonte si fissavano i punti cardinali: un nord, un sud, un est ed un ovest. Ho voluto scrivere Acab, invece, perché Acab dà la perfetta dimensione di un paesaggio privo di punti cardini. In Acab, provo a raccontare una rabbia ed un odio liquido. Provo a raccontare il vulcano su cui siamo seduti, un vulcano che non ha più il pregio rassicurante di avere una faccia o una voce, allora bisogna fare un colpo di telefono al croinista di nera per raccontare come sono andate le cose ma invece, ha un aspetto apparentemente indistinto e che poi ha degli improvvisi sbocchi di violenza. Per cui un giorno scopriamo che esiste un Mario Rossi che nella sella del suo motorino ha trenta coltelli da cucina e con quei trenta coltelli se ne va allo stadio. E di quel Mario Rossi, noi non sappiamo niente perché è un nulla che improvvisamente comincia a popolare i giornali. Invece, quel Mario Rossi ha una storia. Così come noi, in un giorno di luglio di dieci anni, fa scopriamo che in una scuola elementare dove dormono dei ragazzi che hanno partecipato a delle manifestazioni del G8 di Genova, si consuma uno degli episodi di violenza poliziesca più efferato del dopoguerra e scopriamo che dei signori che vestono un uniforme da poliziotto, si possono trasformare in “Terminator”. Ed anche quei poliziotti hanno delle storie. Provare a raccontare ciò, in qualche modo, è stato lo sforzo, l’ambizione, la voglia, la curiosità di provare a non risollevare la testa su quel pozzo di cui dicevo prima. Continua ad essere una forma di osservazione del male, del nero che scorre dentro e sotto di noi e credo che (l’osservazione) sia un esercizio da non abbandonare.
Stefano Sollima firmerà, partendo da Acab, la regia per un nuovo atto ad alto rischio di mitizzazione. Secondo lei questo più che un rischio, potrebbe essere un modo per esorcizzare la paura di mettere a nudo qualcosa di scomodo?
Io di mestiere non faccio il regista. Mi piace molto il cinema ma, la parola scritta e l’immagine appartengono a due registri completamente diversi. Sicuramente quando ci si muove e si maneggiano le immagini il rischio e la forza dell’impatto emotivo è diverso. Le immagini hanno il rischio di semplificare ciò che è complesso, quindi non mi sfugge la difficoltà che Sollima avrà a tradurre in immagini quello che io ho provato a raccontare con un libro. Sollima è un uomo ed un regista intelligente e, anche attraverso i lavori che ha fatto, ad esempio con Romanzo Criminale, credo che in questo tranello non ci cadrà, anzi. Ritengo che proprio alla luce di un’0esperienza come Romanzo Criminale, sia vaccinato da questo punto di vista. Certo rimane il problema della mitizzazione anche se raccontare una cosa che esiste, non significa mitizzarla, è questo il punto: esiste già il mito di Acab negli stati italiani, esiste già la violenza o la cultura alla violenza nel nostro Paese e quindi anche nei nostri reparti di polizia. Dirlo o raccontarlo non significa farne un mito, significa semplicemente dire che questa cosa c’è e che non si può e non si deve fare finta di niente.
Alessandro Ambrosini
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