Nemmeno se lo insultassero, gli sputassero addosso, lo facessero nero di cazzotti riuscirebbero a cancellargli dal volto quel ghigno beffardo. Ce l’ha stampato in faccia anche adesso che sta per essere sbattuto in galera. E’ giovane, non alto, asciutto, nervoso. Giacca nera di velluto con i revers in raso, di quelle che si fanno notare in discoteca. In cella non ballerà di certo, Felice Maniero, il numero uno della Mala del Brenta, il Toso. Scende dalla pantera della Polizia, si guarda intorno tra il torvo e il divertito: il cortile del carcere, le guardie sulle torrette con il mitra spianato, l’entrata. Niente uscita. Si volta di scatto verso il poliziotto che lo ha arrestato e, così, tanto per mettere le cose in chiaro, sbotta: «Non sono né terrorista, né comunista, né terrone». «L’unico terrone qui sono io – risponde l’altro – e tu da questo posto qui non te ne vai più». E’ il 1984. Tre anni dopo Felice Maniero evade da Fossombrone.
Elio Germano è Faccia d’angelo, il più efferato criminale del Nord. Nella casa di detenzione di Gorizia ha girato la prima scena quotidiana del film per la tv in due parti diretto e scritto da Andrea Porporati, prodotto da Goodtime per Sky Cinema, liberamente tratto dal libro Una storia criminale di Andrea Pasqualetto e dello stesso Maniero e da atti processuali. Se Germano ha vinto la Palma d’Oro a Cannes, Maniero vanta un numero imprecisato di sanguinarie rapine, colpi in banca e uffici postali, assalti a portavalori, traffico d’armi, accuse per spaccio di droga, associazione mafiosa e sette omicidi. Un altro personaggio nero, protagonista sullo schermo dopo Vallanzasca, come se il mondo del cinema e della televisione facessero a gara nel raccontare i loro misfatti.
«Assolutamente non è così – è tassativo Elio Germano – ogni individuo è diverso. Non si tratta né di corse né di mode». Inoltre lui, al contrario di Kim Rossi Stuart che per mesi è stato gomito a gomito con Vallanzasca, non conosce Maniero: «Lo faccio a modo mio – spiega – come l’ho immaginato e percepito dalla sceneggiatura e dal libro, come lo sento». Scattante, con quello sguardo che ride, lucido, intelligente, lontano, è un bravissimo attore di 31 anni già adulto ma ancora incantato, contraddizione ricevuta in regalo «forse dal lavoro arrivato troppo presto, ero un quindiccenne. Ma forse, nemmeno: volevo farlo».
Il boss del Brenta secondo Elio Germano?
«Quando si varca il confine della morale, la prospettiva cambia. Precipiti all’inferno. E là vuoi, devi essere il primo, tanto non hai più nulla da perdere, niente che ti possa fermare. Tutto sta nel compiere il primo assassinio, come in Macbeth. Maniero è un personaggio complesso, con una grande capacità affabulatoria – ha corrotto chiunque volesse – e una spiccata predisposizione per l’economia. E’ stato un vero imprenditore del crimine».
Ne parla come se lo ammirasse.
«Bisogna uscire dall’etica comune per capire. Lui appartiene al male. E nel male voleva essere il numero uno. Dopo aver accumulato i primi miliardi, il denaro per lui era un di più, il superfluo. Il suo obiettivo si era spostato, era quello di diventare il sindaco, il principe, il re della Mala. Io no che non lo ammiro. Io sto al di qua del confine, anche se è un confine molto sottile… Io cerco di capire. Io lo interpreto».
Cosa pensa delle polemiche che accompagnano questo tipo di cinema e di tv?
«Non mi appartengono. Senza il male non esisterebbe il bene e viceversa».
Maniero aveva un legame molto forte con la madre.
«Anche Jack lo squartatore avrà provato sentimenti forti per qualcuno, chissà, comunque il rapporto del Toso con la mamma era viscerale. E prima di sposarsi ha anche avuto molte avventure, diverse storie. Le donne gli sono sempre piaciute, e a lui piaceva piacere alle donne. Dopo i primi colpi infatti si compra auto sportive, abiti eleganti, lascia decine di biglietti da cento nei night club. E’ egocentrico in tutto. Un bandito che si crede onnipotente, stretto a filo doppio con la madre…».
Avrebbe immaginato dieci anni fa una carriera così strepitosa, segnata dalla Palma d’Oro, da due David e due Nastri d’Argento?
«Assolutamente no, allora pensavo ad altro, oh, ero un ragazzo. Eppoi i premi sono incidenti di percorso».
Che cosa vuol dire essere attore?
«Essere riuscito rendere la mia malattia, la mia passione, un mestiere. Un mestiere del quale mi piacerebbe parlare. Ma se lo fai con gli amici diventi pesante, e la stampa è interessata ad altro».
Per esempio?
«Chi vedo, dove vado in vacanza, se sono fidanzato e se sì con chi, e altre imbecillità del genere».
Esiste un film che ha significato più di altri?
«Novecento di Bernardo Bertolucci. Ci sono i nostri vizi, le perversioni, le passioni, la ferocia, l’amore. C’è la stupidità e l’atrocità della guerra, l’Italia rurale, bestiale, la nostra storia. Ed è quel grande cinema che voleva fare tutti, da Robert De Niro a Depardieu».
Che cosa le dà o le toglie questo lavoro?
«Mi dà ciò che desidero. E mi rende difficili i rapporti, non tutti sono pronti a ricominciare come prima dopo tre o quattro mesi di riprese, come se il tempo non esistesse. Mica sono molle, mica sono elastici».
Micaela Urbano
Fonte: Il Messaggero
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