Portoferraio, Isola d’Elba, ottobre 1814
E’ una giornata mite, di quelle in cui sembra che la natura stenti a prendere definitivo commiato dall’estate indugiando in un languore morbido nei toni e nei colori, lontano dalle intemperanze dei mesi trascorsi.
Il sole è piacevolmente caldo, il cielo velato da nubi bianche sfilacciate, vuoto di voli e di schiamazzi.. Sotto di noi, oltre il muro di cinta del giardino, protezione dal dirupo scosceso che precipita, irto di fichi d’India e di rovi, verso il mare, s’apre la vastità del Canale di Piombino, d’un celeste tenue, quest’oggi, e solcato da vascelli con le vele dispiegate alla brezza del maestrale, mentre la costa toscana disegna all’orizzonte una fuga di colli e promontori che sembrano azzurrognoli per la lontananza.
Lo sguardo spazia intorno, grato di tanta bellezza, e si sofferma, a destra, sul faro di Forte Stella, imponente e magnifico nella sua pietra rosata, inseguendo poi il profilo delle colline che si rincorrono fino a Capo Vite, prima d’arrendersi all’abbraccio dell’acqua; a sinistra, invece, sale verso Forte Falcone, individuando in lontananza il promontorio dell’Enfola e, alle sue spalle, i superbi rilievi del Marcianese.
Intorno a noi, che siamo sedute sulla panchina di pietra che guarda il mare, il giardino, malgrado l’inizio dell’autunno, è in pieno rigoglio. Il giardiniere ha fatto un buon lavoro e i roseti hanno deciso di rallegrare, con una seconda fioritura, gli ospiti di quell’angolo di delizie. Accanto ai cespugli di rose, le siepi d’alloro, di rosmarino e di lavanda ricordano le fragranze del Mediterraneo, mentre alcune statue contemplano imperturbabili gli accadimenti umani e una fontana, nell’angolo più lontano, rammenta la sua presenza con un sommesso rumore d’acqua.
Paolina mi è accanto, grazia ed eleganza la accompagnano: ha accettato miracolosamente di parlarmi. Temevo non lo facesse: per superbia o per diffidenza nei confronti di una donna che scrive. Ma mi sono servita di un intermediario prezioso, l’addetto alla biblioteca dell’imperatore, Martino, che ha un certo ascendente su di lei, così sensibile al fascino maschile, dal momento che è un bel giovane di trent’anni, scuro di barba e di capelli e con due magnifici occhi verdi.
Il giornale a cui collaboro apprezzerà, spero, il mio colloquio con la principessa e così potrò dimostrare che anche una donna è capace di articoli esclusivi e finalmente smetteranno di farmi firmare con uno pseudonimo maschile “per prudenza” come dicono ipocritamente.
Paolina si sta rivelando più affabile di quanto immaginassi e soprattutto curiosa, lo avverto subito, di conoscere un’ elbana atipica, che dimostra interesse non per l’acconciatura, i gioielli, i vestiti che indossa, ma per i suoi pensieri.
Mi sembra di leggerli tali pensieri, quasi che non fossero protetti da quei riccioli morbidi che le ricadono irresistibili sull’ovale delicato di un candore di perla:
“Che vorrà questa donna da me? Non le è sufficiente la mia bellezza, i miei abiti che dettano la moda, in quest’angolo di mondo, come altrove, ovunque io metto piede?”
Mi sembra pronta a rispondermi e ad indagarmi a sua volta.
Mi sono già presentata, l’ho ringraziata della disponibilità salutandola con un inchino ma lei, indicando la panchina in penombra, mi ha invitato ad accomodarmi, poi ha aperto il ventaglio che tiene tra le mani, più per abitudine, penso, che per necessità.
“Il fau beau, aujourd’hui! Il faut très beau. L’Ile d’Elbe est ch’armante, ce matin…siete stata fortunata, stamani ho voglia di parlare, di ricordare…lasciatemi libera di farlo, però, senza interrompermi troppo, per favore”
La rassicuro nel mio francese, che non ha, ahimè, la languida sensualità del suo e comincia il nostro colloquio. Diligentemente annoto domande e risposte.
D. Principessa, che impressione avete avuto della nostra Isola, come vi trovate insomma?Sono arrivata una settimana fa, dopo un viaggio discreto. Devo confessare che la dimora scelta da mio fratello mi ha deluso parecchio, all’inizio. Piccola, disadorna, incredibilmente lontana, non dico dallo sfarzo di Versailles o Fontainebleau ma anche dalla raffinatezza di Villa Borghese a Roma o della mia casa di Neuilly, vicino Parigi…però me ne sono fatta una ragione! Sono a mio agio nel lusso ma so adattarmi alle ristrettezze, alle difficoltà, sono meno superficiale di quanto appaia e riconosco in me una straordinaria forza nel fronteggiare le disgrazie.
D. Dunque , ritenete una disgrazia l’esilio all’Elba di vostro fratello?
R. Ma chère, la sovranità sull’Elba è conseguenza di una sconfitta e di un’abdicazione, non lo dimenticate! E poi, pensate che Napoleone possa adattarsi senza sofferenze a vivere in un ambiente così ristretto, lui che ha conosciuto i fasti dell’impero e percorso in lungo ed in largo l’Europa? Comunque, non voglio parlare di lui, sono qui perché mi avete chiesto un colloquio e sono curiosa di leggere cosa scriverete di me.
Dunque, vi dicevo, il primo impatto è stato negativo ma, quando ho visto questo giardino all’italiana a picco sul mare e la bellezza della natura circostante, mi sono consolata e rallegrata. Io amo il mare, anch’io sono un’isolana e qui all’Elba ritrovo, seppure in dimensioni ridotte, i paesaggi della mia Corsica. E la penso la mia terra natìa, la sento vicina, mi sembra di respirarne il profumo di libertà selvaggia.
D Allora, principessa, parlatemi della vostra infanzia…
R. La mia infanzia è stata il periodo più bello della mia vita, anche se non il più facile. Avevo una famiglia unita e numerosa, ero la sesta di otto figli, la più gaia, la prediletta. Mi sentivo protetta e quindi sicura e invincibile. Rammento la mia casa, ad Ajaccio, sempre piena di sole, di voci, di grida, d’allegria, specialmente quando noi bambini, d’inverno, giocavamo a nascondino, con scorribande da una stanza all’altra, mentre la mamma inutilmente urlava di smettere e di fare giochi più calmi.
D. E l’imperatore, che bambino era?
R. Quando sono nata io, Napoleone aveva undici anni e già studiava in Francia, in un collegio militare. I primi ricordi che ho di lui, di ritorno a casa per le vacanze, sono di un ragazzo molto affettuoso nei miei confronti: mi prendeva in braccio, mi vezzeggiava, mi proteggeva. Con gli altri fratelli organizzava bellissimi giochi, fantastiche cacce al tesoro, assalti al fortino per le viuzze e le piazzette d’Ajaccio. E la notte, quando tutti gli altri dormivano, leggeva al lume di candela ore ed ore. Era un dolore accomiatarsi da lui che ripartiva, perché il vuoto che lasciava era grande.
D. Quanto è durata la spensierata infanzia corsa?
R. L’eco del primo grande dolore l’ho vissuto a cinque anni, alla morte di mio padre. Dico eco perché ero troppo piccola per averne piena consapevolezza ma rammento la tristezza che calò improvvisa, come un cielo plumbeo, sulla mia casa, su noi bambini, su mia madre vestita a lutto, che diventava capofamiglia e prendeva con energia, a volte eccessiva, le redini di casa.. Fino ai miei tredici anni, siamo rimasti in Corsica, ma già dal ritorno di Pasquale Paoli, si era prodotta sull’isola una divisione insanabile tra la fazione filofrancese, a cui noi appartenevamo, e quella filoinglese, capeggiata dallo stesso Paoli, favorevole alla cessione della Corsica all’Inghilterra. Nella crisi politica che ne seguì, i francesi furono esiliati o perseguitati e anche la mia famiglia si sentì in serio pericolo. Non era una paura infondata: patrioti corsi appiccarono il fuoco alla nostra abitazione e dovemmo scappare per cercare un rifugio in una casa in mezzo alla boscaglia, sopra Ajaccio. Ricordo ancora il panico di quella notte, il bagliore del fuoco, il terrore negli occhi di mia madre. Napoleone non ci lasciò a lungo in quella situazione precaria e pericolosa: da Calvi, con una fregata, venne a prenderci per trasferirci nella Francia del sud. Detti il mio addio alla Corsica e all’infanzia: mai come in quel viaggio provai tanto amore per quella terra che ero costretta a lasciare, mi sentivo un’eroina destinata all’esilio. Ma a Tolone, dove sbarcammo, la situazione si rivelò presto uguale, se non peggiore, di quella lasciata nell’isola. Eravamo in piena rivoluzione: a gennaio era stato ghigliottinato Luigi XVI, ma la repubblica faticava a imporsi e a pacificare i suoi cittadini. A Tolone, realisti e rivoluzionari si contendevano la città e il pericolo di agguati, sommosse, assedi, era quotidiano. I Bonaparte non erano al sicuro. Cominciarono le nostre peregrinazioni: prima poco lontano, a La Villette, poi a Bandol ed infine a Marsiglia.
D. Principessa, eravate in piena adolescenza, avevate tredici anni: come vi sentivate, che percezione avevate di voi stessa e del mondo circostante?
R. Mi stavo facendo una bella ragazza: minuta, non molto alta, ma graziosa , con grandi occhi e una bocca piccola e piena. E poi, avevo dei capelli lunghissimi, ricci, corvini che mi incorniciavano il viso. Vedevo come cominciavano a guardarmi gli uomini e ne provavo una grande soddisfazione. La scuola non era mai stata il mio luogo ideale e del resto, a parte Napoleone, l’istruzione mia e dei miei fratelli consisteva nell’aver frequentato le elementari e ricevuto lezioni private dalle monache. Lo studio non era mai stato il mio forte: mi mancava la curiosità intellettuale e la costanza. La mia mente vagava facilmente dalla storia o dalla matematica alle futilità di tutti i giorni, che io consideravo fondamentali: una nuova pettinatura, un nastro tra i capelli, un fiocco a ravvivare il vestito abituale assorbivano tutta la mia attenzione. Cominciavo già allora a vivere nel culto di me stessa. Comunque in quegli anni vissi anche l’asprezza dell’emarginazione perché eravamo stranieri: la Corsica era considerata un’isola selvaggia e i suoi abitanti poco civilizzati. Inoltre, c’era l’origine italiana che pesava. Già mio fratello aveva cambiato il nostro cognome da Buonaparte in Bonaparte, eliminando quel dittongo che risultava così ostico ai francesi. Io feci di più, trasformai il mio nome da Paoletta in Paulette e poi Pauline.. Mi piaceva, suonava bene. La scelta fu coronata dal successo. divenni donna, abbastanza tardi rispetto alla precocità delle mie sorelle, Elisa, più grande di tre anni e Carolina, più piccola di due.. Ecco, non vi ho parlato di loro, ancora, e sapete perché? Perché i nostri rapporti non erano idilliaci. Tra di loro, Elisa e Carolina erano molto unite e simili, per carattere e interessi: proprio per questo tendevano ad escludermi dal loro mondo. Entrambe mi consideravano troppo frivola e capricciosa: erano sempre lì a censurare i miei comportamenti, le mie scelte. A volte le detestavo con tutto il cuore. Comunque dovevo conviverci e facevo del mio meglio, anche per il motivo che riconoscevo in loro doti di intelligenza, operosità e applicazione di cui io onestamente ammettevo di difettare. Anche con mia madre la convivenza non era facile: rimpiangevo la dolcezza di mio padre, di cui mi era rimasto qualche ricordo stracciato, offuscato dalla nebbia del tempo. Mère Letizia invece era troppo rigida, quasi manichea, e intrigante –oh, quanto!- comandava tutti, pretendeva che fossimo burattini e che a tirare i fili dovesse essere lei.
E intanto mi innamoravo: bastava un ragazzetto belloccio, uno sguardo un po’ più insistito che m’accendevo. Ma a farmi divampare fu Louis.
D. Louis, chi era?
R. Louis Marie Stanislas Freron, deputato della Convenzione, ce lo presentò Napoleone, a Marsiglia. Lo presentò a tutta la famiglia. Aveva messo gli occhi su di lui per me, anche se allora non lo sapevo. Così Louis cominciò a frequentarci e a farmi una corte discreta ma assidua. Luciano, Napoleone e tutti quanti favorirono l’idillio ed io ebbi la netta sensazione che me lo destinassero. Ne ero contenta. Mi piaceva. Avvertivo un’attrazione irresistibile verso di lui: desideravo che mi abbracciasse, mi baciasse. Quando era atteso il suo arrivo, mi facevo bella per lui e mi esaltavo nel vedere, poi, nel suo sguardo, ammirazione e desiderio. Nel frattempo anche Elisa s’era fidanzata e tutto pareva andare per il verso giusto. Consideravo Louis il mio promesso sposo, mi abbandonavo con lui a confidenze e tenerezze che allora –beata innocenza!- mi parevano peccaminose trasgressioni. Ma purtroppo il mio sogno svanì.
D. Per quale motivo fu infranto il vostro sogno d’amore?
R. Freron, che allora era proconsole, cadde presto in disgrazia: fu accusato di appropriazione indebita e a niente valse la sua difesa. Napoleone era impegnato con l’Armata d’Italia, non poteva seguire da vicino le sue vicissitudini né le mie pene d’amore. Così, quando Louis chiese la mia mano, lui gliela negò decisamente e scrisse anche a Josephine di riferirgli l’opposizione di tutta la famiglia. Per me fu un grande dolore e mi pareva impossibile che fosse causato proprio da coloro che affermavano di volermi bene. Io amavo Louis e lui amava me. Per quale motivo doveva essere spezzato così un progetto d’amore? In quei giorni desiderai con tutta me stessa di non essere la sorella di un generale che andava mietendo successi in Italia e che era destinato a diventare, con tutta probabilità, l’uomo più importante di Francia. Se fossi stata una ragazza come tutte, povera e innamorata, avrei scegliere lo sposo che volevo. Così, mi era precluso. La delusione fu enorme: inutilmente i miei fratelli e mia madre cercavano di farmi ragionare, di dirmi che Louis era una persona scorretta, che non avrebbe potuto garantirmi nessun futuro. Io me ne stavo chiusa in camera a piangere, a disperarmi ed a inveire contro le cattiverie di famiglia. Neppure quando mi portarono le prove che aveva un’amante e tre figli, mi rassegnai. Gridai che non me ne importava. Che con me sarebbe diventato un altro uomo e che loro avrebbero avuto sempre sulla coscienza la mia infelicità. Continuai clandestinamente la mia relazione con Louis: ci scrivevamo, ci giuravamo fedeltà eterna. Finché poi dovetti chiudere davvero con lui perché Napoleone aveva concepito per me un nuovo progetto matrimoniale. Mi chiamava a Milano, dove mi avrebbe fatto conoscere il mio futuro sposo.
D. Che reazione aveste a questo invito?
R. Mi rassegnai a lasciare la Francia. E quell’abbandono per un nuovo Paese, quello di cui era originaria la mia famiglia, mi parve un segno. Capii che avevo responsabilità pubbliche, che non potevo compromettere, per la mia testardaggine, la carriera di mio fratello, che dovevo assecondarlo e obbedirgli. Mi aveva fatto avere un ritratto del mio nuovo fidanzato: mi piacque. Smisi il pianto e il lutto dell’anima e mi preparai al nuovo incontro. Passai una settimana in preparativi febbrili: volevo essere bellissima, irresistibile, volevo restare scolpita per sempre nel cuore dei milanesi. Ed infatti quando, dopo un viaggio periglioso, giunsi a Palazzo Serbelloni, dove mio fratello aveva il quartier generale, tutti rimasero incantati dalla mia bellezza. Feci la conoscenza del mio futuro marito: era il generale Charles Victoire Emanuel Leclerc, uno dei migliori amici di Napoleone, che naturalmente, quando mi vide, rimase folgorato.
D. Principessa, mi offrite l’occasione di chiedervi, a questo punto, che cosa colpiva e colpisce di voi.
R. L’aggettivo più usato nei miei confronti è affascinante. Non so esattamente da cosa derivi tale fascino. Credo nell’insieme armonioso della mia persona: mia madre, ai suoi tempi, era stata una gran bellezza, anche le mie sorelle sono belle ma io credo che gli uomini in me ne trovassero altro, suppongo un’avvenenza non statica, come quelle di Elisa e Carolina, ma, diciamo così, dinamica… un forte potere seduttivo, insomma.
E poi, sicuramente, c’era in me il desiderio di esibirlo, questo corpo che Madre Natura mi ha regalato, di far vedere la perfezione delle mie forme e la passione che potevano ispirare.
D. Anche oggi siete così, principessa…
R. Ma allora non avevo ancora diciassette anni! All’inizio di giugno giunsero al castello di Mombello, che era il quartier generale estivo di mio fratello, Mère Letizia ed Elisa, fresca sposa di Felice Baiocchi, un nobile corso. Si avvicinava il momento del mio matrimonio.
D. Ma riusciste ad innamorarvi di Leclerc?
R. Innamorarsi è una parola grossa! Restavo nel mio intimo legata a Freron, il mio cuore era per lui. Ma Charles era un bell’uomo e fisicamente mi attraeva. Ero vergine, sono diventata donna con lui ed è stato soddisfacente, fin dalla prima volta. Rimasi quasi subito incinta. Charles era comandante in capo dell’Armata d’Italia, abitavamo a Palazzo Serbelloni. Mi pareva d’essere felice, anche se il mio pensiero andava spesso al primo amore. Mio figlio nacque nell’aprile del 1798; fu Napoleone a fargli da padrino e a scegliergli il nome, Dermide, come un eroe dei Canti di Ossian. La maternità mi quietò, scordai per qualche mese toilettes, amori, passioni. Mi dedicai completamente al mio bambino, che si ammalava spesso e non cresceva come avrebbe dovuto. Molto presto però i sacrifici dell’allattamento mi stancarono e soprattutto temetti di rovinare il mio seno superbo, così allontanai Dermide dal petto affidandolo ad una balia.
Il ritorno a Parigi nell’ottobre, dopo che Charles aveva dato le sue dimissioni per problemi di salute, fu un regalo inaspettato.
D. Ritornavate volentieri nella Ville lumière?
R. Persi completamente la testa, quasi scordai di avere un marito e un figlio…del resto mi sentivo troppo giovane per relegarmi al ruolo di moglie e madre. Mi tuffai a capofitto nella vita mondana: mi pareva di dover bere tutta d’un fiato, allora o mai più, la coppa delle vanità: vestiti, gioielli, feste, amanti furono gli interessi di quel periodo. Lo riconosco: sono stata frivola e vuota. Ho l’onestà di riconoscerlo!
D. Scusate, Principessa, avete detto amanti? Non eravate ancora una fresca sposa appagata da vostro marito?
R. Certo che lo ero, ma non mi bastava. Intendetemi, non ero una ninfomane. Ero una narcisista: avevo bisogno che mi venisse confermata continuamente la mia capacità deduttiva. Non mi sentivo soddisfatta finché gli ammiratori non cadevano ai miei piedi, vinti. A volte ho pensato che dipendesse da insicurezza. Perché altrimenti cercare continue conferme? Altre volte che fosse la conseguenza della sconfitta d’amore che avevo patito a sedici anni, come se lanciassi questo messaggio inconscio alla mia famiglia: “Non avete voluto che sposassi il mio primo amore? Tollerate che ne abbia tanti!”
D. Ma, vostro marito?
R. Faceva finta di non vedere, mi lasciava fare, temeva di perdermi e, con me, l’appoggio del mio potente fratello. Passavo giornate a prepararmi per una festa, per essere la plus charmante, m’ingelosivo di Carolina che diventava di giorno in giorno sempre più graziosa. Conobbi un attore, specializzato in ruoli tragici, che mi fece perdere la testa, si chiamava Lapon, era bellissimo. Mi dedicai completamente a lui, divenne il mio amante ufficiale. Finché Napoleone, stanco di questi scandali, non impose a mio marito di partire per Santo Domingo. Io e Dermide dovevamo accompagnarlo: era il 1802.
D. Che esperienza è stata quella delle Antille? So che vi ha coinvolto personalmente.
R. Potete immaginare quanto mi pesasse abbandonare Parigi! Ero furibonda all’idea di dover abbandonare tutti gli agi della capitale per affrontare un’infinita navigazione, soffrire il mal di mare, rischiare la vita e mettere a repentaglio quella di mio figlio. Eppure non c’era scelta, Napoleone ce lo comandava. Ritardai la partenza il più possibile. Mio marito, nominato comandante in capo, era a Brest con i suoi uomini già alla fine di novembre, ma partimmo soltanto, a causa mia, a metà dicembre.
E’ proprio vero che il diavolo è meno brutto di quello che si dipinge: quel viaggio per mare, che alimentava i miei incubi, si rivelò invece insperabilmente piacevole. A bordo dell’Ocean, c’era una bella atmosfera e ritrovai il mio primo amore Freron. Allietai anche le serate degli ufficiali, incantati dalla mia bellezza e dal mio spirito.
Mi dedica molto a mio figlio, in quelle settimane, e questo oggi mi lenisce il dolore ancora vivo della sua perdita, qualche anno dopo gli eventi che vi racconto.
A bordo il morale era alto perché tutti si aspettavano ricchi bottini dalla missione dominicana. I fatti sarebbero invece andati in senso opposto, come sapete. Mio marito tentò con il capo dei ribelli una conciliazione che venne rifiutata. I rivoltosi, d’altra parte, esperti della loro terra, si muovevano agilmente, al contrario dei nostri, tra giungla, liane, montagne e pianure: vi si nascondevano, vi si mimetizzavano, rendevano impossibile ai nostri la loro rapida identificazione. Fu una strage: migliaia di soldati vennero uccisi, altrettanti feriti.
Dermide ed io eravamo in pericolo: mio marito prima ci sistemò al Cap, in una discreta abitazione, poi, per nulla tranquillo, ci trasferì all’Ile de la Tortue, dove venne organizzato anche un ospedale per i feriti. Io cercavo di dare qualche aiuto ma il bambino assorbiva le mie energie e il sole dei Tropici mi invitava a godermi quella meravigliosa natura e la vita, che sentivo in pericolo. Non mancarono episodi da cardiopalma: caddi vittima di un’imboscata dei ribelli e mi sentii persa, alla loro mercè, capro espiatorio dell’odio contro la Francia. Allora sfoderai tutto il mio sangue freddo, gridai che se mi avessero toccata anche solo con un dito se la sarebbero vista direttamente con Napoleone. Desistettero da qualsiasi violenza e di lì a poco venni liberata. Un’altra volta io e il bambino, dopo essere ritornati a Cap, ne dovevamo di nuovo partire, per una destinazione ancora più lontana dell’Ile de la Tortue. Non ne volli sapere, dissi che non sarei salita mai più su nessuna imbarcazione se non con mio marito. Piuttosto la morte. Fui ascoltata. Purtroppo il peggio doveva ancora venire. Mio marito da qualche tempo non stava bene, era dimagrito, aveva un colorito pallido e spento. Eppure continuava a darsi da fare, mi rassicurava, diceva che era un malessere dovuto al clima tropicale. Invece tutto precipitò: febbre altissima, vomito, diarrea: un inferno!
Poi il coma ed infine la morte, nella notte tra il primo e il due novembre. Un uomo nel fiore degli anni, destinato a una carriera invidiabile, tenero padre, marito comprensivo e affettuoso moriva in un luogo sperduto del mondo, miglia e miglia lontano da casa. Mi sentii cadere il mondo addosso. Decisi che non l’avrei seppellito lì per tutto l’oro del mondo. Feci costruire una bara di legno pregiato e, con mio marito dentro, mi imbarcai con Dermide e il seguito sullo Swiftshure che tornava in Francia. Ero vedova. A ventitrè anni! Rividi Parigi a gennaio.
D. Le malelingue sussurrano che portavate malvolentieri il lutto a vostro marito.
R. Le malelingue devono sprofondare nell’abisso dell’inferno. Non è vero. Avevo imparato ad amare Leclerc, nei pochi anni del nostro matrimonio, non di un amore travolgente, intendiamoci, ma di un amore meditato. Lo amavo perché aveva capito la mia anima, perché mi accettava com’ero, senza pretendere di cambiarmi, perché comprendeva che, quando tradivo, lo facevo solo con il mio corpo, mentre il mio spirito restava libero, non ero sua né di nessuno. Ero mia. Ero Paolina: assetata di vita, di esperienza, innamorata dell’eros, più che dei vari amanti che mi si proponevano. Dunque, ho sofferto, quando Leclerc è morto, e non poco. A Parigi mi chiusi in casa, mi ammalai: non avevo nemmeno la forza di tenere in braccio mio figlio, di ricevere visite. Dimagrii, smisi di pensare alle frivolezze. Fu un periodo spaventoso. Mi vestivo di nero e mi sembrava di avere l’aspetto di mia madre quando era rimasta vedova.
D. Quanto durò il periodo del lutto? Che avvenne poi?
R. Non è facile essere vedova a ventitrè anni, esternare per molto tempo un dolore che, seppure presente dentro di te come un sottofondo musicale, albergava con altri sentimenti: la voglia di vivere, di gioire, di esprimere gaiezza e allegria. Ero giovane, bella, desiderata, avevo un figlio piccolo che aveva bisogno di tenerezze e di sorrisi. Presto il lutto mi venne a noia. Intendiamoci, non contestavo il lutto del cuore, ma quello delle apparenze: vestire di scuro, non partecipare a feste, balli, ricevimenti, rinunciare insomma a tutto quello che costituiva l’essenza del mio mondo.. A Parigi, in quel periodo, viveva un principe italiano, bello, ricco e quasi altrettanto frivolo come me. Sebbene italiano, era imbevuto di francesità, così come il padre, Marcantonio Borghese, fervente seguace di Napoleone. Si chiamava Camillo. Lo incontrai la prima volta a Palazzo Mabeuf. Non mi dispiacque. Bruciammo le tappe della nostra relazione, divenendo amanti quasi subito. Ebbi l’impressione che Napoleone e Giuseppe non aspettassero altro, anzi, per dirla tutta, credo che il nostro incontro sia stato favorito da una sorta di complotto familiare e politico, di cui facevano parte anche il rappresentante toscano Angiolini e il legato pontificio Caprara, affinché le cose andassero proprio come stavano andando; del resto Camillo possedeva un invidiabile titolo nobiliare e un patrimonio di due milioni, per non parlare delle sue ricchissime proprietà, naturale perciò che si volesse questa relazione! Però, questo tramare a mia insaputa mi dette parecchio fastidio, quando lo scoprii: avrei preferito che Napoleone me lo avesse chiesto esplicitamente; non ho gusti difficili e, se non ci sono particolari motivi di repulsione, tutti gli uomini mi attraggono. Stare con Camillo non era un sacrificio ma le convenzioni pretendevano che passasse almeno un anno dalla morte di mio marito per un nuovo legame ufficiale. Con un guizzo di ribellione e per andare controcorrente, decidemmo di sposarci segretamente con rito religioso, nel castello di Mortefontaine, il ventotto agosto. Il mio potente fratello non gradì affatto l’iniziativa prima della scadenza del lutto e, per esprimere il suo disappunto, non partecipò nemmeno al rito civile del sei novembre successivo, sempre nello stesso luogo. Però ci fece giungere la sua approvazione e la sua benedizione alle nozze . Mi bastava.
- La vostra vita stava per cambiare, dunque. Eravate una principessa italiana, adesso. Vi trasferivate a Roma, a Villa Borghese!
R. Napoleone mi scrisse una lettera, dove mi ammoniva con queste parole: “ Vous devez être actuellement mûre et sensée…ne méprisez jamais rien, trouvez tout beau e ne ditez pas : a Pars il y a mieux de cela…”. Cercai di scolpirmele bene in testa, mentre mi avviavo, carica di abiti da sogno e stupendi gioielli, a Roma, con mio marito.
- Quale fu l’impatto con la nuova realtà italiana?
R. Inizialmente tutto bene: conoscerete Villa Borghese, è splendida: vaste sale decorate, arricchite di arazzi, statue, quadri, un parco immenso…mi pareva di essere una regina!
Mi tuffai nella vita mondana, mi calai nel mio ruolo, fui felice per qualche tempo. Poi sopraggiunse il dolore per la perdita di Dermide. Mio figlio non era mai stato il ritratto della salute, come del resto sua madre, ahimè, e i medici mi avevano preparato a qualsiasi evenienza. Ma una cosa è un’ipotesi infausta, altra cosa è la cruda realtà: lo piansi con tutte le mie lacrime, mi stracciai le vesti come le protagoniste delle tragedie greche. Poi mi quietai, riposi quel dolore in un angolo del cuore, accanto a quello per Leclerc e mi rituffai nella vita con più enfasi di prima per non lasciarmi il tempo di pensare. In molti mi avranno giudicato una madre insensibile. Non è così. Quando smettevo trasparenze e sete, velluti e broccati; quando riponevo collane, diademi, braccialetti ed orecchini, restando a tu per tu con la mia anima, l’angoscia mi assaliva come la marea che monta. Fu allora che cominciai a tradire mio marito.
D. Si facevano molti pettegolezzi su di voi, lo sapete…
R. Si facevano e si fanno, anche qui, nella vostra isola. La mia fama è pessima: sono considerata una femme fatale, un’eccentrica, una nobile puttana. In realtà non mi sono mai venduta per amore. La mia voracità nasce da un impulso erotico che non riesco, se non sporadicamente e con qualche sforzo, a tenere a bada. Un uomo non mi basta, ho una fame insaziabile di piacere e di piacermi. So di potermelo permettere, per avvenenza e per potere. Essere sorella dell’imperatore mi conferisce una libertà e un’impunità che donne di rango sociale più basso del mio non possono permettersi. E’ immorale? Non credo. Avrei dovuto comportarmi meglio per rispetto a Camillo e Napoleone? Sì, penso di sì. Ma la forza di volontà era molto inferiore alla civetteria, alla frivolezza, al godimento che provavo nel sentirmi vagheggiata e adorata. Inoltre Roma cominciava ad annoiarmi: mi accorsi che il fasto dei salotti romani nascondeva conformismo e zelante ipocrisia religiosa. Anelavo Parigi, l’aria di libertà che vi si respirava. La rividi, finalmente, la mia città d’elezione, in occasione della cerimonia d’incoronazione a imperatore di Napoleone, a Notre Dame. Ecco, mi sentivo a casa, parte di quella cerchia magica a cui avrei desiderato appartenere tutti i giorni, non solo occasionalmente., anche se con Josephine, diventata imperatrice, i rapporti continuavano ad essere tesi. Ritornai comunque a Roma e intrapresi quell’avventura artistica e umana che mi avrebbe reso immortale.
D. Alludete al vostro incontro con Antonio Canova e alla statua di Venere vincitrice?
R. Proprio così. Canova era il più importante scultore del tempo, io desideravo ardentemente una statua che mi immortalasse. Mio marito era d’accordo. Camillo mi lasciava spesso sola per i suoi impegni a Torino e io mi annoiavo non poco in Villa, sebbene il parco fosse splendido e nella stagione gioissi delle sue piante rigogliose, dei suoi magnifici fiori, del laghetto e dei giochi d’acqua delle fontane. Potevo trascorrere meglio il mio tempo, lavorando (si fa per dire!) per l’immortalità. Quando mi presentai a Canova, lui aveva in mente, suppongo, uno dei soliti busti. Ma gli feci subito cambiare idea: “Voglio essere rappresentata come una dea greca!” E, senza attendere la sua risposta, cominciai a spogliarmi . il suo imbarazzo mi faceva tenerezza. Quando fui quasi nuda mi adagiai di fianco, semisdraiata, sul divano accostato alla parete, appoggiando languidamente la testa sul palmo della mano. Vidi che trasaliva, colpito da una specie di folgorazione: intuiva già la statua conclusa. Poi si riprese, cercò di scrollarsi di dosso l’imbarazzo e mi chiese a quale dea greca volessi assomigliare.
“Che suggerite?” risposi
“Potrebbe andar bene Diana, la dea della caccia?”
“Ma non è anche la dea della castità? Non mi sembra il caso, meglio Venere, la dea dell’amore!”
“Allora sarete Venere vincitrice, che tiene in mano il pomo datole da Paride come riconoscimento della sua bellezza suprema” affermò convinto, non senza arrossire. Acconsentii. Mi pareva un’idea magnifica, che esprimeva appieno la mia personalità.
Cominciarono le sedute di posa: Canova non me lo chiese, non ne ebbe forse il coraggio, ma io, già dalla prima volta, cominciai a denudarmi completamente. Solo un drappeggio all’altezza dei fianchi proteggeva la mia intimità. La prima volta che mi vide a seno nudo avvertii il suo stupore d’artista e di uomo. Ne provai un immenso piacere. Il divano era stato sostituito da un letto di legno con materasso e cuscini, molto somigliante ad un triclinio d’epoca romana. Mi annoiavo meno di quanto prevedessi: per far passare il tempo, cercavo di calarmi nella mente dell’artista, nell’abilità delle sue mani mentre scalpellavano il marmo, togliendo, come diceva Michelangelo, soltanto il superfluo. Fantasticavo che lo scultore mi vedesse già dentro quel blocco di materia grezza e che a ogni colpo mi liberasse dal peso del marmo.
Le mie amiche, quando parlavo loro dell’opera, mi ascoltavano scandalizzate. Erano morbosamente concentrate soltanto sulla mia audacia, sulla mia trasgressione alla morale corrente: come poteva una nobile denudarsi davanti ad uno scalpellino, fosse pure Canova? Non avevo ai loro occhi né dignità né fierezza di classe!
“Sono perfettamente a mio agio, amiche, lo studio è riscaldato!” esclamavo allora io per scandalizzarle ancora di più con la mia disinibita disinvoltura. Tanto era inutile penetrare nella loro mente ottusa. Ma di una cosa ero certa! La loro era soprattutto invidia del mio bel corpo di statua greca! Mio marito, quando era in Villa, assisteva alle pose. La prima volta, vedendomi nuda davanti a Canova, non poté reprimere un moto di stizza e di disappunto, ma poi si rese conto che lo scultore era innocuo e che quello era il prezzo da pagare perché una principessa Borghese restasse scolpita, oltre che nel marmo, nella mente e nei cuori dei posteri. Del resto, era vero: Antonio Canova era correttissimo: non mi sfiorava se non con lo sguardo e senza guardarmi negli occhi, badava solo al lavoro. Spesso mi pareva preoccupato e malinconico: aveva scoperto che, a causa del suo mestiere, aveva le costole incavate e che tale patologia comportava problemi di stomaco e di digestione. Appariva serissimo e silenzioso: forse temeva di commettere qualche errore, di cadere in disgrazia presso il suo committente. Questo mi indispettiva un po’: lo avrei voluto loquace sulla mia avvenenza, pendente dalle mie labbra e adorante ai miei piedi. Anche lui, come tutti. Via via che il lavoro procedeva (ci vollero anni!) restavo incantata dalla magnifica opera d’arte che prendeva forma davanti ai miei occhi: pareva davvero che quel blocco di marmo grezzo si liberasse dagli eccessi, si plasmasse sotto la guida del suo esperto artefice in forme sublimi, animandosi e prendendo vita per infonderla nella meravigliosa creatura che stava nascendo. Mi sembrava di essere Venere che sorge dalla schiuma del mare: lei affiorava dagli abissi e nasceva dal mare approdando sulla sacra riva di Zacinto, io affioravo dal marmo, viva e palpitante, e tale sarei rimasta per l’eternità.
D. Vostro marito fu contento della statua?
R. La fedeltà con l’originale lo sconvolse: inizialmente permise ad amici e conoscenti di vederla, poi ordinò che fosse trasportata nella nostra camera da letto e ne proibì agli altri la visione, per gelosia.
D. Suscitando credo il vostro risentimento…
R. E’ ovvio non avevo posato per più di due anni per lasciarmi contemplare solo da Camillo! Del r5esto, i nostri rapporti erano deteriorati ormai: io non sopportavo più Roma né Torino, dove lui era spesso; non mi interessava nemmeno essere stata nominata duchessa di Guastalla: in fondo lo consideravo solo un titolo onorifico, dato che regnavo su un paese di poveri mendicanti.. eppure mi era stata messa a disposizione addirittura una corte: comprendeva dame di compagnia, un medico, un chirurgo, un farmacista e il cardinale di Genova, Spina, come primo elemosiniere.
Pur in contrasto con Napoleone, che fece di tutto per farmi restare in Italia, accanto a Camillo, decisi di trasferirmi in Francia. Era di fatto la separazione da mio marito. Approdai finalmente nella mia patria e trascorsi anni piacevoli nella mia residenza di Neuilly e poi a Nizza, a godermi la dolcezza del clima Mediterraneo e il profumo delle sue essenze. E poi, in questi ultimi anni, qua e là, in tutte le più rinomate stazioni di cura e di soggiorno.- Se è lecito, perché, principessa?
R. Preferisco glissare sui miei problemi. Vi basti sapere che non godo ottima salute, malgrado l’apparenza.
D.Ci avviciniamo all’oggi. Come avete vissuto in questi ultimi anni, le avventure politiche e militari dell’imperatore?
R.Quel 2 dicembre a Notre Dame, pensavo a lui come a un nuovo Carlo Magno, fondatore di un impero che andava oltre gli angusti confini nazionali per comprendere il cuore dell’Europa. Credevo che fosse possibile almeno per qualche decennio. Non è stato così. L’edificio che Napoleone aveva costruito con il suo sacrificio personale e quello dei suoi soldati, non ha retto all’urto della storia: andava contro l’idea di patria, l’idea di nazione, così forte in questi decenni. Ho assistito con sgomento al crollo del suo impero, ho sofferto indicibilmente durante la campagna di Russia, sapendolo assediato dalla morsa del gelo e dall’odio del popolo russo, ho pianto quando è stato umiliato a Lipsia e costretto ad abdicare. Ho pregato che non fosse così, che non finisse miseramente il suo sogno di gloria. Ma è stato inutile. Allora ho pensato che qualunque disgrazia gli fosse capitata, io sarei stata dalla sua parte perché, lo sapevo, in fondo era solo.
D. E sua moglie Maria Luisa?
R. Non credo che l’abbia mai amato davvero. A differenza di Josephine…
D. Eppure si dice che voi l’abbiate detestata!
R. Nel divorzio di Napoleone da lei, che pure mio fratello amava, ho avuto una parte anch’io: l’ho spinto a farlo per dare un erede al suo impero, dato che mia cognata, per l’età avanzata, non poteva più avere figli.
D. Questo vi ha procurato il suo odio?
R. Sì, tanto da indurla a spargere veleno su di me, alludendo addirittura a un mio rapporto incestuoso con mio fratello, una calunnia che è stata costretta a smentire pubblicamente, quando Napoleone è andato su tutte le furie. Insomma, sono stata io ad avvicinare l’imperatore a Maria Luisa, ovviamente per motivi dinastici, ma, lo riconosco, lei non l’ha mai amato. Vedete, non viene neppure a trovarlo nel suo esilio, sebbene lui l’aspetti con ansia! Così mi sono detta: andrò io all’Isola d’Elba, anzi, ci porterò anche Mère Letizia. E ho mantenuto il proposito.
D. E la vostra vita qui, com’è?
R. Piacevole, ora che comincio ad animarla con feste, balli e rappresentazioni teatrali con attori che faccio venire da Livorno. Sennò sarebbe un mortorio. E poi mi godo la luce del sole, il paesaggio, il mare, il trascolorare del cielo a seconda dei giorni e dell’umore della stagione. Cerco di rallegrare mio fratello con la mia verve. Insomma, ragazza mia, provo a vivere! Ma quant’è che parlo? Il sole è già alto nel cielo, mi sono raccontata per tutta la mattina. Sarà il caso di rientrare, di farmi viva con il resto della corte e soprattutto con lui….volete restare a pranzo con noi?
D. A pranzo? Come posso rispondere di no? A Paolina non si resiste!
Ripongo i miei appunti, ci alziamo dalla panchina, posiamo lo sguardo sulla distesa d’acqua sotto di noi, che pare luce bagnata. Poi la seguo, mentre si dirige verso la villa, emanando una fragranza di violetta che seduce.
MGC
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