Mesi fa nelle campagne di Mesagne è stato dato alle fiamme Damiano De Fazio morto dopo alcuni giorni. Il fuoco è stato appiccato dall’amante, Dora Buongiorno, nella zona dei genitali. Restando nel Salento, l’anno scorso la cassazione ha confermato l’ergastolo a Lucia Bartolomeo che si liberò del marito con una dose letale di eroina per avere campo libero con l’amante. Sempre nel 2012 a Livorno Brigitte Skuldarek aveva spappolato i testicoli del marito, Gabrio Gentilini, reo di un rapporto con una prostituta, e l’aveva poi sodomizzato con un portarotoli di marmo fino alla perforazione dell’intestino. Vano l’intervento chirurgico. Diversi anni fa Luciana Cristallo uccise il marito con 24 coltellate e lo buttò a fiume aiutata dall’amante ma l’anno scorso è stata assolta perché il marito era violento. Sempre nel 2012, Jesusa Ursonal, che conviveva nonostante il divorzio con l’ex-marito trentaseienne Ronie Tatad, in California, ha deciso di lanciargli addosso dell’acqua bollente mentre l’uomo stava dormendo per colpirlo poi ripetutamente con una mazza da baseball mentre cercava rifugio in bagno. L’uomo è morto due settimane dopo l’aggressione. L’elenco potrebbe essere lunghissimo (di avvelenatrici è piena la storia e anche la cronaca lo sarebbe, se rientrassero nel trend attuale del mediaticamente appetibile) ma è inutile continuare: se anche si arrivasse a mille casi non ne troveremmo mai traccia nei programmi televisivi pomeridiani, dove si sente parlare soltanto di femminicidio, ovvero di ciò che non esiste.
Non mi riferisco soltanto all’insussistenza del fenomeno, dato che la pagliacciata dell’emergenza si commenta da sola: cifre ridicole ovunque e particolarmente in Italia, dove la percentuale di donne tra le vittime di omicidio è più bassa che nei civilissimi paesi nordici. Si parla di cento delitti nel 2012, su una popolazione di sessanta milioni. Metà dei casi del 2003. Solo in parte, contrariamente a quanto si afferma, commessi da familiari o conoscenti. Così come è del tutto falso che la prima causa di morte sia la violenza domestica, panzana mostruosa che continua ad autoalimentarsi quando solo i morti per incidenti domestici sono ottomila. Il dato preoccupante che si ricava dalle statistiche ISTAT è che le donne sono solo un quarto del totale dei morti ammazzati: sarà mica il caso di ammazzarne un altro centinaio, prima che qualche Commissione per le pari opportunità lamenti il mancato rispetto delle quote rosa? No, mi spiace per le meste conduttrici, non esiste escalation femminicida se non nella deriva sensazionalistica dei media e delle soubrette in cerca d’applauso facile.
Ma anche un solo assassinio è una tragedia, quindi non è sulle statistiche che intendo soffermarmi bensì sull’orrendo neologismo che vorrebbe sottintendere una dimensione culturale del fenomeno. Non c’è: non si riuscirà mai a dimostrare in un tribunale serio che una donna sia stata uccisa come tale, in quanto appartenente a un genere, come accade invece a chi appartiene a una razza, a una religione, a una minoranza sessuale o a una tifoseria (esiste anche questo: se hai la sciarpa della squadra sbagliata ti ammazzo, anche e soprattutto se non ti conosco); neanche la più folle distopia potrebbe immaginare camere a gas per le appartenenti al sesso femminile (ne esistono invece, e non peregrine, sull’evento opposto).In tutti i casi riportati le donne sono state uccise come individui. Per gelosia, avidità, rabbia, frustrazione e mille altri motivi, mai per l’appartenenza: si uccide quella e quella sola donna, incolpevole succube o insuperabile stronza, per motivi di volta in volta diversi, quasi sempre in preda a un raptus.
E gli assassini hanno agito individualmente, sempre: Non c’è un’ideologia dietro agli omicidi illustrati sui giornali, non c’è uno straccio di teoria seppur delirante, non c’è consenso da parte di altri maschi. L’atto è riprovevole per chiunque, punto, anche se si è alla disperata ricerca del mostro da additare e uno psicologo, un sociologo, un prete, che cerchino di comprendere la genesi di certi gesti vengono subito presentati come ‘giustificazionisti’.
Le folli ‘studiose’ che individuano la misoginia come movente di questi omicidi non sanno davvero di cosa parlano: il misogino odia le donne, gli assassini delle cronache spesso le amavano, o almeno lo pensavano. Amore distorto, sì, folle, possessivo, trasformatosi in odio(cosa c’è di più ovvio?)a causa di precise ma difformi circostanze e sempre in relazione a un soggetto preciso, non generico. Quando poi odiavano, questi uomini odiavanoquelladonna e ne amavano un’altra, o cento altre.
Il quadro di questi delitti si rivela opposto a quello degli stupri perpetrati da estranei, casualmente. In quel caso davvero la donna non ha volto, conta poco la singola femmina, si cerca indifferentemente qualsiasi appartenente al genere.
Il femminicidio, insomma, così come lo si vuol determinare, non esiste. Se si dovesse arrivare a leggi che lo presuppongano, magari sanzionando l’uccisione di una donna più severamente di un infanticidio, non sarà di sicuro un trionfo della giustizia.
Lo scandalo di queste morti, si protesta, sta nell’essere annunciate. C’è timore e vergogna da parte delle donne minacciate e disinteresse delle autorità per la situazione di pericolo, questo è il nodo socioculturale. Vero, molte morti sono annunciate. D’altro canto migliaia di annunci non si concretizzano. Difficile capire prima quali minacce si concretizzeranno. E chi è deciso ad ammazzare se frega dei provvedimenti restrittivi; neppure i domiciliari lo fermerebbero. Bisognerebbe che il potenziale omicida fosse messo in galera. Con quale strumento giudiziario? Si può fare un processo alle intenzioni? Certo, si potrebbe sanzionare la minaccia stessa, se provata, ma per quanto tempo? Alla scarcerazione il violento sarebbe probabilmente inasprito e ancor più determinato al delitto.Questa faccenda della morte annunciata mi ricorda un altro campo di morti annunciate, scalzato ormai dalla prime pagine, quello dei malati di mente: dopo una escalation di violenze succede spesso che costoro ammazzino i genitori, o altri familiari. Non sempre è prevedibile e anche qui, gli strumenti non sono molti. Mi chiedo sperchè non si contano titoloni recenti: perché non succede più o perchè ammazzare la madre è rientrato nella casistica ‘femminicidi’? In realtà il fenomeno è il medesimo: gli assassini delle donne di cui si parlasonofolli.
Perché non ci si occupa con altrettanta insistenza e ‘creatività’, dei casi infinitamente più numerosi, di suicidio? Tradizionalmente la stragrande maggioranza dei suicidi è di sesso maschile e, guarda caso, la fascia preponderante è quella dei divorziati. Gli uomini, pare, vivonol’abbandonocon maggiore sofferenza – affettiva ed economica – ma quasi sempre reagiscono con la violenza verso se stessi.
C’è un altro argomento che va affrontato: l’ammazzamento – si afferma – non è che l’esito inevitabile, a volte involontario, o almeno non premeditato, di una serie di violenze. Anche se il femminicidio non esiste come tale, certe morti sono la conseguenza di una violenza che non è casuale, episodica, ma diffusissima, che affonda le radici nella fallocrazia. Sarebbe davvero sciocco negare che sussista una antica mentalità patriarcale, scherzosamente attestata dal proverbio “Quando torni a casa la sera picchia tua moglie. Tu non sai perché ma lei lo sa benissimo”. Il proverbio viene attribuito di volta in volta ai cinesi e agli arabi, ma è diffuso ovunque, forse solo per consolazione, dato che attualmente di questa mentalità non è rimasto nulla. Gli uomini contemporanei non sono stati educati a questa scuola: altri sono i comportamenti, i giudizi, le parole d’ordine. Si potrebbe tracciare un confine preciso, un’età anagrafica, con piccole varianti tra nord e sud, tra città e provincia, sotto la quale i riprorevoli esempi sono stati demonizzati. Questo non vuol dire che gli uomini non siano violenti anzi la natura dell’essere umano è certamente violenta e solo un leggerissimo diaframma culturale lo separa dall’azione violenta. Di solito la vittima è un uomo. Oppure una donna. Non è che ci siano molte alternative. E’ meno grave se ci va di mezzo un uomo? Pare di sì: l’idea è che se se le prende un uomo se l’è cercata con la sua pregressa violenza. L’uomo è forte, quindi picchia impunemente, a prescindere.
E’ il paradigma dell’Uomo Nero, così sintetizzato:
- La Donna, ovvero il sesso debole, è, per sua natura, dolce e remissiva, oltre che, come da definizione, debole
- La Donna non esaspera i conflitti ma li media, li attutisce con le sue superiori capacità di dialogo, con la sua connaturata empatia
- Se le Donne governassero la società non ci sarebbero più guerre: la sua indole pacifica, le preoccupazioni per la prole, la sua attitudine a confrontarsi con le istanze fondamentali della vita la rendono intrinsecamente pacifica (ogni riferimento a Margaret Thatcher e Golda Meir è espressamente vietato)
- La Donna non può che risultare perdente in un confronto col maschio, orso villoso, forzuto, brutale e pure panzuto: va quindi tutelata con legislazioni ad hoc, scorta armata, vigilanza elettronica nell’alcova e, soprattutto, neologismi improponibili
- Dati i presupposti l’Uomo non può in alcun caso essere vittima di qualsivoglia genere di violenza
- Se, in inconciliabile contraddizione con quanto sopra e, quindi, per assurdo, l’uomo dovesse venire colpito è esortato (salvo esplicita indicazione contraria da parte di fabio fazio) a rassegnarsi, a considerarlo il giusto contrappasso, il risarcimento per millenni di prevaricazione sulla donna e, quindi, a ritenersi privilegiato per questa opportunità di espiazione.
Ma il paradigma dominante è un altro, quello del Soldato Jane: poiché le caratteristiche di genere sono saltate e le attività che venivano considerate prerogativa maschile, in particolare le attività fisiche, sono ormai esercitate dalle donne come e meglio degli uomini, la fenomenologia è un’altra:
- Le donne eccellono nel free climbing e sono sempre più numerose nelle spedizioni himalayane
- Le donne salgono sul ring
- Le donne risultano frequentemente superiori nelle arti marziali ai colleghi maschi dei corpi di polizia
- Le donne risultano frequentemente superiori ai colleghi maschi dei corpi di polizia anche nelle prove di tiro
- Le donne non sono inferiori ai colleghi maschi nei pestaggi bestiali, come dimostra la presenza di Monica Segatto tra i quattro agenti di polizia condannati per aver spezzato i manganelli sul corpo di Federico Aldrovandi
- Negli Stati Uniti le soldatesse (ammesso che desinenze del genere siano ancora consentite) hanno ottenuto la facoltà di recarsi in prima linea, conquista recentissima che cancella finalmente una irragionevole discriminazione: d’ora in poi le donne potranno accoppare di persona (possibilmente in un corpo a corpo) e non più per interposto guerriero. Non dovranno più limitarsi a seviziare, al coperto, i prigionieri iracheni.
Questi due paradigmi sono inconciliabili. Eppure le paladine del femminismo da salotto li adottano disinvoltamente entrambi, spesso nel corso della stessa discussione. Quello dominante, oramai, è il secondo: l’uomo non ha (non ha più) il monopolio della violenza domestica. Quando si dice donna castratrice di solito si sta ricorrendo a una metafora ma esiste anche Lorena Bobbitt. E scagli la prima pietra la donna che non ha mai dileggiato un uomo o esercitato violenze sottili e protratte. Certi atti scaturiscono da dinamiche difficili da far rientrare in un ambito di assoluta correttezza. Di certo conosco uomini che prendono regolarmente – e letteralmente – sberle; per non parlare della propensione al lancio di oggetti: i nostri focolari sono da sempre teatro di un intifada. Ah già, non risulta nelle cronache. E non risulterà mai. Neanche a sua madre un uomo confesserebbe di essere stato picchiato dalla consorte. Figuriamoci all’appuntato. “Gli uomini fanno stalker – si afferma – le donne quasi mai”. Quasi mai vengono denunciate, piuttosto. Anche di uomini perseguitati da donne più o meno folli ne conosco parecchi; non si sognerebbero mai di denunciarle: gli uomini sì che si vergognano di essere vittime.
Molti stalker, molti violenti e alcuni assassini sono uomini abbandonati. Mollati o costretti al divorzio. Non si rassegnano a situazioni di questo genere perché il loro atteggiamento verso la compagna è possessivo. E’ un atteggiamento diffuso, stigmatizzato perché considerato tipicamente maschile, maschilista, fallocrate (il corollario è che la donna viene considerata un oggetto – come se le redattrici di rubriche femminili e le conduttrici di talk show, insieme alle loro lettrici e telespettatrici non facessero uso e abuso di uomini oggetto).
E’ giusto deplorare questo meccanismo affettivo, la possessività è una patologia, in fondo: l’amore, specie nell’accezione cristiana, tende al bene della persona amata anche quando questo richiede l’allontanamento. Ma l’umanità non è composta di santi e il rapporto tra un uomo e una donna non è mai stato scevro di questa componente. Chi lo teorizza non ha la minima cognizione della natura umana. Nessuno ha mai sentito parlare di donne possessive? E’ più frequente che la loro possessività sia orientata verso i figli maschi, vero, ma ne resta sempre a sufficienza per l’inclusione dei mariti: neanche la possessività è una prerogativa maschile. Pare anzi che non lo sia per niente: quello che gli uomini vanno sviluppando è semplicemente una dipendenza.
Occorrerebbe tuttavia, almeno qualche volta, accantonare questi termini da trattato di patologia, possessività e dipendenza, e provare a considerare la faccenda un po’ diversamente, specie in presenza di vincolo matrimoniale. Chi si sposa oggi sa di mentire quando afferma che il legame è per sempre: la diffusione di separazioni e divorzi e l’esaltazione di essi da parte delle odierne Donna Letizia comportano un retropensiero più o meno conscio. E’ naturale però che chi ha preso sul serio quella promessa non accetti facilmente la rottura del vincolo. E in gioco non è soltanto il possesso: c’è in ballo qualcosa di più grande del possesso di una persona, molte sono le persone coinvolte e non mi riferisco solo ai figli. Non inganni l’apparente indifferenza: il vulnus si allarga per onde concentriche, scuote le famiglie di provenienza, le amicizie, la cerchia sociale nel suo insieme.
Quella che vediamo dispiegarsi su tutti gli organi di stampa e in ogni ambito televisivo è una campagna terroristica tesa a enfatizzare la colpevolezza del maschio e ad alimentare una cultura sessista nel diritto di famiglia, penalizzante per gli uomini. Questo è l’aspetto tattico, piuttosto evidente, dietro il quale non si può non intravedere quello strategico: alimentare sospetto e diffidenza non più soltanto tra razze, classi e popoli ma anche tra i due sessi, così da portare a termine il disegno complessivo, che è quello di minare la coesione tra gli esseri umani. Ogni genere di solidarietà deve scomparire: dissolte le nazioni, dissolti i sindacati, dissolti i legami patriarcali, marginalizzate le religioni, restano da dissolvere i nuclei familiari. I poteri hanno bisogno di monadi, schiavi e consumatori isolati, in conflitto tra loro; occorre quindi trasformare anche le relazioni tra uomo e donna, soprattutto all’interno del matrimonio, in un campo minato, in un terreno di scontri legali, di intromissioni giudiziarie e di più frequenti scioglimenti.
E. Paoloni - pierolaporta.it