“C’è un quadro di Klee che si chiama Angelus Novus. L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Là dove davanti a noi appare una catena di avvenimenti, egli vede un’unica catastrofe, che ammassa incessantemente macerie su macerie e le scaraventa ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e riconnettere i frantumi. Ma dal paradiso soffia una bufera, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che l’angelo non può più chiuderle. Questa bufera lo spinge inarrestabilmente nel futuro, a cui egli volge le spalle, mentre cresce verso il cielo il cumulo delle macerie davanti a lui. Ciò che noi chiamiamo il progresso, è questa bufera.” – Walter Benjamin, tesi Sul concetto di storia, Einaudi, 1997
“L’invenzione di Morel” è sicuramente uno dei film più complessi di Emidio Greco che esordì nel 1974 con questa trasposizione cinematografica del romanzo fantascientifico di Adolfo Bioy Casares.
È Giulio Brogi ad interpretare il naufrago dal volto sofferente e pallido che, fuggito da un penitenziario, raggiunge, trasportato dalle correnti a bordo di una “barca marcia”, la fatale bianca isola dove è nascosta al mondo l’invenzione di Morel.
Quest’uomo ha affrontato “un viaggio irripetibile”, ma approdato fortunosamente tra gli scogli, altro non trova che una distesa abbagliante di pietre aride. La fotografia luminosa di Silvano Ippoliti concorre alla creazione di una atmosfera che preannuncia una folgorazione, lo sconvolgimento futuro del protagonista.
Comincia così ad esplorare l’isola, fino a scoprire il luogo in cui è nascosto il mistero che sarà poi determinante nella vita dell’uomo.
L’architettura futurista del “museo”, come verrà chiamata la costruzione dallo stesso Morel, ricorda lo stile della scuola Bauhaus e di un certo Mendelsohn: l’aspetto del luogo inizialmente fa vivere nello spettatore la sensazione che la storia sia ambientata in anni relativamente contemporanei a quelli in cui è stato girato il film, ma quando il naufrago vaga per le stanze arredate secondo lo stile dei primi decenni del XX quel tempo che sembra definito diviene incerto. Amedeo Fago costruisce una scenografia perfettamente coerente con l’intenzione del regista: interpretare e rendere evidente il senso di ambiguità e di sospensione della dimensione temporale e spaziale, ambiguità peraltro già sottilmente richiamata nella scelta di collocare la vicenda sulle coste dell’isola di Malta, luogo topico della scoperta e del mistero, dell’ignoto.
Passano i giorni, una mattina si stagliano dagli scogli, come spettri che improvvisamente scelgano di comparire, alcuni uomini e donne che danzano sulla musica elegante e frizzante di Nicola Piovani. Il naufrago non comprende immediatamente la realtà della situazione, crede che questi siano villeggianti e che possano denunciarlo, perciò li teme e si nasconde.
Al tramonto incontra Faustine (Anna Karina), una giovane ed algida donna che legge, indifferente alle parole che il giovane le rivolge. Scosso dall’atteggiamento inspiegabile della ragazza, l’uomo raccoglierà dei fiori selvatici in una composizione per omaggiarla il giorno successivo, ma l’incontro si ripeterà simile al precedente: Faustine sembra disprezzarlo, rimane muta e assorta mentre il naufrago cerca delle risposte e crederà che la donna voglia difenderlo e coprire la sua fuga ed intanto continua a spiare i villeggianti da lontano. Presto si renderà conto che alcune azioni si ripetono ciclicamente, identiche: sono i passi dei personaggi, come il rumore dei tacchi di Faustine sulla pietra, o il suono della risacca, il silenzio dell’isola immobile e assolata a scandire la sua vita.
Solo quando l’uomo ascolterà Morel (John Steiner) confessare impassibile e glaciale di avere filmato, “fotografato”, l’essenza dei suoi amici riuniti nel “museo” per donare loro l’immortalità e l’eternità in quei “sette giorni di spensierata gaiezza”, solo allora comprenderà che Faustine e gli altri sono proiezioni materiali di una macchina, esistenze impresse nel tempo e nello spazio solo virtualmente reali.
Quello che sconvolge ed inquieta è che questa forma di fisicità metafisicamente riproducibile sia più tangibile della stessa fisicità: Morel definisce i suoi compagni di villeggiatura come attori su un palco, i loro atti sono stati fotografati, loro stessi sono stati inquadrati e impressi nello spazio in tutta la dimensione che li costituisce. La verità è folgorante: il naufrago comprende che non potrà vivere con l’immagine della donna che ha amato, perché questa possiede solo la coscienza del passato. Lo stesso Morel lo ammette: “l’influenza del futuro sul passato” è stata la ragione per cui ha deciso di “imprigionare” questo “hic et nunc” impregnato di fiducia e ottimismo, per potersi garantire l’eternità in un “ritratto di gruppo” ed essere al fianco di Faustine che ama non ricambiato, come a fermare lo sfacelo della parabola discendente della storia umana. “A chi servirà?” chiede uno degli amici dell’inventore interpretato da Roberto Herlitzka. “A noi stessi se torneremo” è la risposta dello scienziato che vorrebbe prolungare il soggiorno in un “paradiso privato perfettamente protetto”, perché Morel sa che il mondo fuori è sicuramente già cambiato in quei sette giorni, sicuramente è ancora di più brutale e terribile.
Isola di Capuano, luglio 1929
È questo il tempo di Faustine. Il naufrago è giunto circa cinquant’anni dopo. Per poterle essere accanto in eterno, l’uomo decide di entrare nella registrazione e di creare quindi una sovrapposizione temporale effettiva anche nella riproduzione ciclica di questa fotografia sensoriale. È impossibile per lui abbandonare l’isola e nel mondo non potrebbe raccontare ciò che ha visto. Entrare nell’invenzione implica, però, rinunciare a se stessi: Emidio Greco, che ha seguito i gesti dei personaggi con rigore e razionalità definendoli con inquadrature sempre più vicine dal momento in cui svela l’inganno della macchina, mostra adesso allo spettatore i tentativi dell’uomo di inserirsi tra i villeggianti come un pezzo della loro storia.
Il regista riesce a mostrare il velo di realismo magico che avvolge l’opera dello scrittore argentino, indica allo spettatore l’incertezza ed il senso di sospensione del protagonista nel dilatare la storia in tempi distesi: il montaggio di Mario Chiari assicura questa consequenzialità nelle azioni.
Per Jouvet l’attore è un uomo in fuga che cerca nel Teatro il suo altrove. Giulio Brogi interpreta un uomo in fuga che cerca il suo alibi e il suo altrove nel passato, insieme ad una figura femminile chimerica e distante, irraggiungibile. Si tratta di un Teatro registrato, imprigionato nell’invenzione di un uomo solo e insoddisfatto, Morel, che vorrebbe donare alla realtà e all’impossibile l’eterno ritorno e l’eterna fuga dal tempo.
Emidio Greco, però, aggiunge come sempre un “perché”: si interroga sugli strumenti di rappresentazione e di riproduzione della realtà, sul loro potenziale conoscitivo e sul modo di tradurli nel linguaggio proprio del genere, evocativo ma al contempo chiaro nell’evidenza dei significati profondi ad esso sottesi. Anche qui Greco, come avverrà ne “L’Uomo Privato“, ci propone un cinema di pensiero; anche qui conduce lo spettatore verso una riflessione sull’etica del cinema, sulla ricerca di senso dell’esistenza in sé e dell’uomo nei confronti della storia.
La realtà non può rinunciare a se stessa nell’illusione di fuggire alla dimenticanza ed alla solitudine del proprio tempo: il protagonista de “L’invenzione di Morel” distruggerà la macchina, i raggi mortali che lo dovrebbero condurre con l’immagine della donna che ama ad una felicità eterna stanno assorbendo la sua essenza ed egli si sta disfacendo.
Nell’ultimo primo piano del protagonista, Emidio Greco dà risonanza alla tensione ed al fermento che animano tutto il film e pervadono l’isola ed i personaggi: sembra abbia costruito nello sguardo perso del naufrago una consapevolezza che, però, non può salvarlo.
Written by Irene Gianeselli