L'isola che non c'è (SB - cap.2)

Creato il 03 dicembre 2010 da Mcnab75

Sono passati sette giorni da quello che doveva essere l'ultimo post del mio blog, invece eccomi qui, di nuovo online.

Ammetto che le numerose e inaspettate risposte che ho ricevuto venerdì scorso mi hanno convinto a tentarle tutte per rimanere collegato, anche se per ovvie ragioni diventa sempre più difficile accedere a Internet.

Innanzitutto lasciatemi dire che sono contento di aver ricevuto notizie da alcuni di voi, di cui avevo perso le tracce da mesi, ossia dai giorni del crollo totale delle nostre istituzioni. Che poi, a voler ben guardare, la fuga del Governo fu solo una formalità, visto che eravamo di fatto già abbandonati a noi stessi già da settimane. Se ce la siamo cavata è perché siamo stati bravi (più bravi di altri) a capirlo per tempo e ad arrangiarci in qualche modo. Leggo che molti di voi si sono organizzati in piccole comunità. Forse avete compiuto la scelta migliore. Se penso invece alla fine che devono aver fatto tutti quelli a cui era stato ordinato di rimanere in casa ad attendere i soccorsi che non sono mai arrivati...

Senza parlare poi delle cosiddette “zone sicure”. Ricordate? Dopo aver ciarlato per settimane della necessità di barricarsi in casa, il Ministero dell'Interno ha cambiato radicalmente idea, diramando la lista di quei centri d'assistenza presidiati da Esercito, Protezione Civile e Carabinieri. Centri predisposti ad accogliere tutti coloro che abitavano in aree urbane fuori controllo. In teoria.

Io non ho mai creduto che una soluzione del genere fosse attuabile. Considerando i lunghi tempi di incubazione del prione chissà quante persone già contagiate sono entrate nelle presunte zone sicure. Sintomi a parte, solo accurati esami del fluido cerebrospinale possono individuare tracce del prione, prima che questo inizi la sua fase più acuta di infezione. Figuriamoci se gli improvvisati centri d'assistenza dell'Esercito potevano essere dotati di adeguate strumentazioni. Forse un sistema radicale per prevenire il contagio poteva essere quello di rifiutare assistenza a tutte le persone che presentavano ferite simili a morsi. Ma, una volta tanto, è stato il barlume di una coscienza solidale comune a fregare gli italiani. Forse si sarebbero dovuti adeguare ai modi spicci e brutali di russi e cinesi, chissà.

Tornando a me...

Dopo mesi di completo isolamento in montagna, vi ho detto che ero intenzionato a mia volta a raggiungere una zona sicura. A questo punto, per non passare per idiota, spendo due righe per giustificare questa scelta. Come vi ho scritto settimana scorsa, l'afflusso di Gialli nel paesino in cui ero rifugiato stava aumentando un po' troppo. Se prima ne vedevo sì e no una ventina, sempre gli stessi e mai tutti insieme, a novembre ne ho contati altrettanti (nuovi!) arrivare dalla provinciale che porta giù alla strada che attraversa la Valsassina. Cosa li spingeva fin lì? Forse la fame. Forse nei borghi più a valle non c'era più nessuno vivo da cacciare. O magari hanno notato fin da giù il fumo del camino che ho acceso nei giorni più freddi. Stupido io a non pensarci!

Per il momento il freddo li rallentava, ma non potevo più svegliarmi all'alba col terrore che fossero oramai diventati troppi per uscire di casa. È a quel punto che è nata l'idea di tentare una sortita all'Isola Comacina, la zona sicura più vicina a dove stavo io fino a settimana scorsa. Di tutte le roccaforti scelte dall'Esercito e dalla Protezione Civile mi è sempre sembrata una delle più logiche: una piccola isola nel Lago di Como, lunga seicento metri e larga duecento. Pochissime case di pescatori, due ville antiche, una chiesa, una locanda e un ristorante. Difendibilissima e, di fatto, autonoma. Pensai che il presidio dell'isola poteva aver resistito ai mesi peggiori, all'Estate Gialla del 2014 e a quella del 2015, di cui tra l'altro si hanno davvero scarse notizie. Una rigida disciplina e un'amministrazione adeguata potevano trasformare l'Isola Comacina in una minuscola oasi di civiltà nel cuore del mondo morente.

Questo mi sono detto e ripetuto.

Ma evidentemente non è andata così: l'isola è un cumulo di macerie carbonizzate, abbandonata e deserta.

E dire che il mio viaggio era iniziato piuttosto bene. Ho abbandonato il mio vecchio rifugio passando dalla stradina sul retro del condominio, che nei mesi scorsi avevo piano piano recintato con pannelli di compensato, rete e assi. In quel modo nessuno dei Gialli poteva avvicinarsi al retro dell'edificio in cui ero alloggiato. Così me ne sono potuto andare senza attirare troppe attenzioni. Ho tagliato per una strada secondaria, che fa una sorta di saliscendi dietro il paese, per arrivare fin su, dove una volta c'era un rifugio trasformato in ristorante per gli amanti delle passeggiate in montagna. Per fortuna mi sono dotato a tempo debito di un fuoristrada, perfetto per questi percorsi in pendenza. Tuttora il serbatoio è pieno per metà, e ho con me riserve sufficienti per un altro pieno. Del resto saccheggiare la locale officina di mezzi agricoli mi ha fruttato un bel po' di benzina, che gli altri si erano invece affannati a cercare all'unico distributore del paese. Questo sul finire dell'aprile del '14, quando tutti cercavano riparo e protezione nelle zone sicure. Io invece arrivai qui, anzi (a volte fatico a ricordarmi di essermene andato dal rifugio) il due maggio del '14, quando oramai anche in paese non c'era quasi più nessuno. Dopo due settimane gli unici abitanti di quello sperduto borgo eravamo io e un'altra dozzina di disperati, perlopiù anziani, ciascuno barricato nella propria casa. Poi nemmeno loro...

Ma sto divagando. La mia fuga, dunque. Su al rifugio, che è poi una sorta di grosso edificio rustico, con una quarantina di coperti, non c'era nessuno. Non in apparenza, almeno. Non avevo nessuna voglia di controllare, complici i due cadaveri putrescenti che s'intravedevano vicino alla porta sul retro. Così ho preso la strada accuratamente pianificata nei giorni scorsi. Più lunga e complicata rispetto al previsto, ma lontana da centri abitati di media grandezza, perciò più sicura. Vi basti sapere che ho attraversato in discesa una sorta di bosco in cui il fuoristrada ci passava a malapena, seguendo un sentiero pensato per gli amanti del trekking, non certo per le auto.

Di Gialli non ne ho visti e, cosa che mi ha inquietato non poco, non ho incrociato nessun animale. Ma forse erano solo spaventati dal motore della Wrangler. E io avevo più paura di loro, non essendo più abituato a stare all'aperto. Che poi, non so voi, il mio prodigioso arsenale si riduce a una Glock con trentaquattro proiettili da 9 mm residui, una roncola con filo mezzo smussato, un coltellaccio di quelli “survivor” e una balestra Excalibur più ingombrate che pratica da usare. Ho sempre pensato che, se i Gialli mi attaccassero in più di due o tre alla volta, finirei alla svelta la mia esistenza terrena.

Fuori dal bosco mi sono raccordato con una strada sterrata che attraversava un ampio tratto di campagna. A parte qualche cascina e dei minuscoli borghi in lontananza non c'erano altre tracce di civiltà. La sensazione bizzarra ed estraniante era quella di trovarsi catapultati indietro nel tempo, nel Medioevo. Anche le carcasse arrugginite di un paio di trattori abbandonati nei campi sembravano più scheletri di animali preistorici che non mezzi meccanici. Forse quando la peste nera imperversava per l'Europa, a metà del '300, il paesaggio doveva essere simile a questo.

Probabilmente perquisendo qualche cascina abbandonata avrei potuto trovare materiale utile, magari anche cibo o benzina, ma avevo troppa paura, perciò ho tirato dritto. Finalmente il navigatore satellitare, che funziona ancora alla meraviglia, si era orientato, indicandomi quale direzione prendere per riallacciarmi alla Strada Statale 36, quella che passa lungo il lato orientale del Lago di Como. La via più breve per raggiungere la Comacina in realtà era un'altra: arrivare in un qualsiasi approdo (Bellano o Varenna, per esempio) e imbarcarmi. Ipotesi impraticabile, visto che non so nulla di navigazione, né volevo poi abbandonare la Wrangler. Insomma, ho dovuto fare una deviazione di oltre tre ore e mezza, contando anche che in prossimità dei centri abitati più grandi, come Colico e Gravedona, ho fatto delle deviazioni in aperta campagna, dove c'erano meno possibilità di incontrare Gialli.

In realtà ne ho visti pochi, tutti piuttosto intontiti dal freddo e dalla fame. Mi sono tenuto a debita distanza dai pochi erranti che individuavo da lontano. Solo un paio di volte ho dovuto accellerare per evitare che dei Gialli solitari sbucati dalle carcasse di auto abbandonate si buttassero addosso al fuoristrada nel tentativo di raggiungermi. Poco fuori Trezzone sono poi incappato in una sorta di grosso assemblamento, otto o nove esemplari, che gironzolavano attorno a un mobilificio posto a margine della Statale, che nel mentre era diventata la 340. Probabilmente là dentro c'erano delle persone sane, considerando anche che le serrande delle finestre erano abbassate lungo i due lati che ho potuto vedere. L'idea di fermarmi e controllare non mi ha nemmeno sfiorato il cervello: nove Gialli sono abbastanza per fregarti alla grande, senza considerare che gli spari ne avrebbero attirati altri dai dintorni.

Se non altro una cosa mi ha consolato: oltre a qualche errante e a questi del mobilificio, ho visto poche creature in giro. Mesi fa sarebbe stato quasi impossibile procedere lungo la strada, con quei cosi che si riversavano ovunque in cerca di sangue. Non a caso ci sono cadaveri dappertutto, tanto che in alcuni punti è impossibile abbassare i finestrini, col tanfo che si respira nonostante il freddo. Forse stanno morendo tutti di fame. Non è improbabile, pur contando la resistenza fisica garantita loro dal prione.

Purtroppo all'altezza di Menaggio, ossia non lontano dalla mia meta, ho avuto però le prime avvisaglie che il mio viaggio non si sarebbe concluso con un successo. Piuttosto che entrare in paese ho deviato verso nord, tagliando per un'ampia area destinata a un golf club prestigioso, che avevo già visitato quando il mondo era ancora a posto. Lì ho visto i primi segni di saccheggio. Il resort del golf club ero uno scheletro bruciacchiato, così come le poche auto nel parcheggio riservato agli iscritti. C'erano anche dei corpi sparsi sull'asfalto e anche più in là, sul green, anche se mi sono guardato bene dal controllare da vicino. Più che la possibile presenza di Gialli nei dintorni, mi hanno terrorizzato i cinque cadaveri distesi davanti al cancello d'ingresso. Ho fermato la Wrangler lì accanto per controllarli: quei poveretti, tre uomini e due donne, di cui una piuttosto anziana, erano stati giustiziati l'uno in fila all'altro, da un plotone d'esecuzione o qualcosa del genere.

Con bruttissimi presentimenti in testa ho raggiunto Ossuccio, il paese sulla costa ovest del lago da cui una volta ci si imbarcava per la Comacina, che è separata dalla terraferma da meno di duecento metri d'acqua dolce. Mi sono spinto fino al porticciolo, ma son dovuto scendere dall'auto cento metri prima di raggiungerlo, perché le carcasse di altri veicoli abbandonati ingombravano la strada. Sono sceso nonostante, ve lo assicuro, me la stessi facendo addosso. Balestra alla mano mi sono avvicinato al molo, dove erano ancora attraccate un paio di barche di modeste dimensioni e un motoscafo a malapena più grande. Il freddo intenso in qualche modo mi rassicurava un po', mentre ciò che vedevo oltre il lembo d'acqua mi ha gettato nella depressione. Come vi ho anticipato a inizio post, l'isola è stata bruciata da cima a fondo: boscaglia, edifici, perfino il campanile che s'intravedeva tra i tronchi carbonizzati. Qualcuno ha messo a ferro e fuoco la “zona sicura”, e di certo non lo aveva fatto per sbaglio o per arginare un contagio scoppiato sull'isola. Non così.

Pensare a dei razziatori non è un'idea così peregrina. Immagino un grosso gruppo armato, che si sposta su dei fuoristrada e dei SUV, attaccando e depredando gli altri superstiti. La cosa peggiore è che non so se sono oramai lontani da qui, o magari rintanati in qualche fortilizio, pronti al prossimo raid. Ogni voglia di andare sull'isola mi è passata all'istante. Difficile che là ci sia ancora qualcuno, o qualcosa. A quel punto ammetto che ero disperato. Potevo tornare al rifugio e studiare un altro piano, stabilire un'altra meta. Nel mentre però i Gialli sarebbero continuati ad arrivare alla spicciolata, magari per mera opera di imitazione dei loro simili. L'idea mi terrorizzava. Allora sono tornato in macchina e mi sono messo a scartabellare tra le cartine stradali di cui avevo riempino il vano portaoggetti della Wrangler. Dove andare? Che fare?

Visto che il porticciolo mi sembrava tranquillo son rimasto lì a cercare un'idea. Una via d'uscita. Un futuro. Poi mi sono addormentato. Che coglione, vero? Quando mi son svegliato stava già imbrunendo. Avevo dormito per quasi cinque ore, complice la tensione e la stanchezza accumulata nei giorni precedenti. Per fortuna nessun Giallo era passato di lì. A quel punto era inutile mettersi a gironzolare al buio. Valeva la pena dormire in macchina, senza accendere luci per non attirare attenzioni indesiderate. Sono sceso di nuovo solo per pisciare, poi mi sono avvolto nella coperta, ho mangiato un paio di scatolette di sgombri affumicati e son rimasto lì, in una situazione che definire allucinante è poco. Solo in mezzo al nulla. Un po' come essere su Marte, tranne che lassù non ci sono contagiati emotofagi pronti a succhiarti come un bastoncino di liquirizia.

Ho acceso il computer, coprendo lo schermo con uno straccio per limitarne la luminosità. Se ci fosse stato un qualunque wireless ancora attivo, vi avrei scritto due righe per sentirmi meno solo. Invece non c'era nulla: zero totale. Ciò aumentava la mia sensazione di solitudine assoluta. Ho trascorso diverse ore con la Glock appoggiata tra le gambe, sperando solo di riaddormentarmi. Ogni tanto mi sembrava di sentire qualche rumore, in lontananza. Il silenzio e il buio amplificano l'udito, questo è appurato. Ogni suono che probabilmente veniva da chilometri di distanza mi sembrava vicinissimo. Per evitare di scendere ho pisciato in una bottiglia d'acqua appena svuotata. Poi, Dio volendo, è arrivato il sonno e quindi l'alba. Ed ero ancora sano e salvo.

Sono ripartito con la prima luce del giorno. A quel punto la mia idea, piuttosto confusa, era di riparare a nord, in bassa montagna, dove secondo la cartina non c'erano paesi, nemmeno minuscoli. Potevo fermarmi in un qualunque pascolo abbandonato e prendermi qualche giorno per pensare a qualcosa di più concreto, per esempio una puntata oltre confine, in Svizzera.

Non ho fatto però in tempo a lasciare la stradina che Ossuccio portava verso il Sacro Monte, e quindi tra alpeggi e boschi, che ho incrociato sulla mia destra il posto da cui vi scrivo ora: un agriturismo. La deviazione era indicata da un cartello traballante. In condizioni normali non avrei curiosato, ma la necessità di scendere dalla Jeep e di tirare il fiato era troppo pressante. La fortuna mi ha arriso un'altra volta. Questo rudere ristrutturato è deserto, abbandonato, e già saccheggiato fino all'ultimo vano del più piccolo armadio. Ma è isolato, costruito com'è su un sentiero in salita, nascosto da una piccola macchia di castagni. Ed è anche dotato di inferriate alle finestre, e di una portone vecchio stile, con tanto di catenaccio e spioncino.

Non c'è cibo né acqua corrente, ma nell'aia (oramai deserta) c'è una fontanella che sembra pescare direttamente da una fonte sorgiva che viene giù dai monti. Non ci sono più animali, nemmeno nella stalla, che è occupata solo da un vecchissimo trattore dal serbatoio svuotato fino all'ultima goccia di benzina. In casa ho trovato solo qualche vecchio vestito da lavoro, delle pentole ammaccate e qualche bottiglia di latte cagliato e puzzolente. Tutto il resto se lo son portati via. Però, meraviglia delle meraviglie, in una delle tre stanzine forse un tempo riservate ai clienti, c'è un vecchio modem wireless funzionante, che nessuno si è sognato di toccare. Anche se la linea telefonica è muta, la connessione a Internet funziona ancora.

Come mai? Di preciso non lo so, ma posso dirvi che è alimentato, come il resto dell'edificio, da un generatore fotovoltaico ancora integro. Ci ho messo giorni per capire esattamente come funziona, ma ora eccomi qui, dotato di corrente elettrica che alimenta il wireless, la batteria del mio portatile e il fornelletto portatile che mi sono portato dietro. Peccato non avere una stufetta a corrente per scaldarmi. Nella sala da pranzo al piano terra c'è un camino ma non oso accenderlo. Il fumo si vedrebbe a chilometri di distanza. Non ripeterò due volte lo stesso errore. Anche se sono giorni che non vedo un Giallo ho imparato a non fidarmi. Potrebbe essercene qualcuno nascosto nei boschi qui vicino, magari a caccia di altri sopravvissuti, o anche di qualche animale da mangiare, che in mancanza di altro va pur sempre bene per placare la fame.

Insomma, mi sono sistemato benino. Peccato per il cibo, che scarseggia. Ne ho per dieci giorni, quindici se stringo la cinghia. E poi? Se fosse primavera proverei a coltivare l'orto che i padroni di casa hanno abbandonato. Sempre ammesso che ci sia da fidarsi, con tutte le schifezze radioattive che i venti dell'est han portato fin qui dalla Russia, dal Pakistan e dalla Cina negli ultimi anni. Comunque il problema non si pone nemmeno.

So che prima o poi dovrò tornare giù in paese, oppure spingermi anche più lontano, per cercare qualcosa da mangiare. Per il momento però mi riposo. Sistemato il fotovoltaico mi sto dedicando a controllare il perimetro dell'agriturismo, e a rendere più accogliente la stanza padronale in cui ho preso alloggio. Di giorno leggo, con la consapevolezza che sarà impossibile trovare nuovi libri nell'immediato futuro. O forse per sempre. La sera guardo uno dei film, già visti decine di volte, che ho salvato su chiavetta USB. Ogni tanto ascolto Chopin. È l'unica musica che il mio cervello tollera, oramai.

E poi navigo. Ho visto alcuni dei vostri vecchi blog, anche se la maggior parte sono oramai scomparsi con la caduta dei server. Non ci sono più portali di news attivi, questo oramai da mesi. Tuttavia c'è un sito australiano, che riesco a caricare ogni tanto, che fa intendere quanto le cose siano andate di lusso agli aussie, complice una scarsa densità di popolazione e un isolamento geografico favorevole. Hanno ancora un governo, una parvenza di economia, anche se devono mantenere la legge marziale per impedire infiltrazioni dall'esterno. Oramai ho idealizzato l'Australia come una sorta di Paradiso terrestre: salvifico e irraggiungibile. Tanto vale la pena che fosse sulla Luna.

Finalmente riesco ad aggiornare il blog. Qui è notte. C'è buio ovunque. Da ogni finestra vedo solo oscurità, anche sul lago, che di giorno offre un panorama mozzafiato. Sembra davvero di essere in Io sono leggenda. A volte penso che un domani, quando tutti i Gialli saranno morti di fame, il mondo sarà un posto pacifico e più giusto, perfetto per ricominciare. Ma occorre sopravvivere fino ad allora.

Ma stasera è successa una cosa nuova. Un'ora fa, prima di mettermi a scrivere, ho visto una luce. Veniva da qualche parte sul lago, verso sud-est. Impossibile determinare la distanza esatta, ma penso che sia almeno a cinque chilometri da qui. Era una luce modesta, forse una finestra illuminata, ma nel buio totale spiccava come un faro. Dopo dieci minuti si è spenta e non si è più riaccesa. Che dite, dovrei andare a controllare?

(Il mio percorso: dal rifugio all'Isola Comacina - cliccare per ingrandire)
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Survival blog: elenco dei capitoli precedenti e degli altri contenuti.
 



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