L’istante della felicità. Dostoevskij e la fotografia di Nico Colucci.

Da Paolotritto @paolo_tritto

Tempo fa mi sono soffermato ad ammirare una fotografia che Nico Colucci aveva scattato nella mia città, che sarebbe anche la sua città se non fosse che a un certo punto lui l’ha abbandonata. Almeno fisicamente, non credo anche affettivamente. Si trattava di una fotografia a colori scattata in un momento particolare della giornata, in uno di quegli istanti che soltanto i grandi fotografi sanno cogliere. Nico Colucci è però un fotografo che predilige il bianco e nero; nel suo libro intitolato Matera City Scape, edito da Librìa di Melfi e dedicato appunto alla nostra città, il colore è limitato alle gradazioni di grigio.

La fotografia in bianco e nero è ancora utilizzata da alcuni fotografi per esigenze artistiche o professionali. Questo tipo di immagini ha il pregio, tra l’altro, di esaltare il dettaglio dei soggetti. Credo che sia per questo motivo che Colucci fotografi in bianco e nero; essendo architetto, avrà probabilmente l’esigenza di mettere in risalto le linee presenti nelle inquadrature. Io però non voglio attardarmi in una lezione di fotografia, attività che ho svolto tanti anni fa soltanto a livello amatoriale e prima dell’avvento del digitale che ha dissacrato questo mondo che ai miei occhi appariva incantato. Per questo, mi piace soffermarmi ogni tanto su qualche scatto fotografico capace di restituirmi quell’incanto.

Voi sarete scettici sul fatto che delle semplici fotografie possano avere un tale potere. E invece a me, guadando le immagini di Nico Colucci, mi è capitato di andare con la mente a Fëdor Dostoevskij, particolarmente alle Le notti bianche, breve romanzo della giovinezza di questo grande autore russo. Tutto ciò, inizialmente, per un motivo riferito a un aspetto temperamentale. Colucci si definisce sognatore, visionario e ottimista. Esattamente come l’io narrante del romanzo di Dostoevskij che, appunto, nel sottotitolo è definito “memorie di un sognatore”.

L’operazione che compie l’autore russo in questo romanzo giovanile è la stessa che compirà Colucci con le sue fotografie su Matera: sgombrare il paesaggio da ogni presenza umana. Quella di Dostoevskij è una Pietroburgo deserta, anzi abbandonata dagli abitanti, trasferitisi per le vacanze nelle loro residenze estive. Anche tutto il racconto ruota attorno a un’assenza: un uomo atteso ardentemente da una ragazza alla quale aveva fatto una promessa. Il vero protagonista, dunque, non entra a far parte della scena; il sognatore non partecipa attivamente alla reale vita di relazione che anima la città. Quella di Dostoevskij – è veramente straordinario ciò – è dunque la rappresentazione “ante litteram” di una realtà virtuale. Il “discorso” che si stabilisce, pertanto, è tra il sognatore e un “quadro” rappresentato dal paesaggio. Questo “discorso” possiamo coglierlo ne Le notti bianche ma anche nelle immagini materane di Colucci, perché anche le fotografie raccontano qualcosa, esattamente come un testo scritto. Lo stesso fotografo presenta il volume Matera City Scape come un “racconto fotografico”. Una delle prime cose che imparai quando cominciai a interessarmi di fotografia fu proprio questa: che esiste un discorso fotografico, con un soggetto e con un verbo che sta a indicare un’azione, come ci hanno insegnato nella sintassi.

È impressionante notare quanto il paesaggio urbano di Matera, come viene rappresentato da Colucci, corrisponda a quello pietroburghese descritto da Dostoevskij. Dove l’osservatore “sognatore” si ritrova a dialogare con la città deserta, con le case abbandonate. «Anche le case sono mie conoscenti» scrive Dostoevskij. «Mentre cammino sembra che ognuna mi corra incontro per la strada, e guardandomi con tutte le sue finestre, quasi mi dica: “Buon giorno; come va la vostra salute? Anch’io, grazie a Dio, sto bene, e nel mese di maggio mi sopralzeranno di un piano”. Oppure: “Come va la vostra salute? Quanto a me domani inizieranno i lavori di restauro”. Oppure; “È mancato poco che bruciassi: ho preso uno spavento!”, e così via. Tra di esse ho le mie predilette, le mie amiche intime. Una di esse ha intenzione di farsi curare da un architetto quest’estate. Di proposito andrò a trovarla ogni giorno per badare che, Dio non voglia, la curino male!… Ma non dimenticherò ciò che accade a una casetta assai carina color rosa chiaro. Era una casetta in muratura così graziosa che mi guardava così cordialmente, mentre squadrava tanto orgogliosamente le sue goffe vicine, che il mio cuore si rallegrava ogni volta che mi capitava di passarle davanti».

Chi si ritrova a guardare gli antichi rioni dei Sassi di Matera, vedrà gli edifici ordinati non su un piano orizzontale, ma come può apparire a un attore teatrale la disposizione delle file dei palchi. Avverte cioè questa sensazione strana, come se le case stiano lì a osservarlo e che, al passaggio, gli rivolgono un saluto: “Come va la vostra salute?” Anche l’architetto Renzo Piano, nell’intervista ad Alberto Giordano pubblicata in appendice al volume, riferisce una sensazione simile e parla degli antichi rioni materani «come una foto antica, color seppia, con i buchi neri delle finestre come bocche spalancate».

Ciò che domina il racconto di Dostoevskij e le immagini di Matera City Scape, come dicevo, è l’assenza di una presenza. Gli uomini hanno abbandonato la scena, privando il paesaggio urbano della presenza umana. Se Dostoevskij avesse visto Matera come noi la vediamo oggi avrebbe notato quanto più vera diventa la sua descrizione pietroburghese. La città lucana è stata abbandonata ripetutamente nella sua storia: quando è cominciata l’emigrazione e quando sono stati evacuati i rioni dei Sassi, ma lo è ancora adesso che i giovani sono spinti ad andare via per cercare altri posti dove studiare e dove affermarsi. Tutto questo richiama le parole del romanziere russo; sembra che a Matera «ogni passante aveva ora un’aria del tutto particolare, con la quale sembrava dicesse a ogni persona che incontrava: “Noi, signori, siamo qui solo di passaggio”». È forse per questo che la città è diventata meta privilegiata dei turisti, “abitanti di passaggio”; tanto è vero che qui è stato adottato un termine “abitanti culturali” che rende bene il concetto di un legame che si basa non tanto sulla residenza fisica, sulla permanenza, ma nel riconoscersi in un’identità culturale. Si può appartenere cioè a Matera anche non vivendoci, anche abitando in un’altra città, anche venendoci soltanto di tanto in tanto. Come fa, per esempio, Nico Colucci.

“Se Dostoevskij avesse visto Matera” sembra un’affermazione ardita. Io, invece, credo che questo desiderio il romanziere possa avercelo avuto davvero perché, sempre ne Le notti bianche, scrive: «V’è qualcosa di inesprimibilmente toccante nella nostra natura pietroburghese, quand’essa, con l’avvento della primavera, d’un tratto mostra tutta la sua possanza, tutte le forze donatele dal cielo e si riveste sfarzosamente di foglie, si fa variopinta di fiori…». E, commenta: «Era come se a un tratto mi fossi ritrovato in Italia, tanto forte era l’effetto che produceva la natura su di me». Bisogna aggiungere: non soltanto la natura, ma anche quella cornice di architettura che ha saputo esaltare Colucci. Sappiamo, tra l’altro, quanto forte fosse in Dostoevskij l’interesse per l’architettura italiana, per il “palazzo” – nel testo de Le notti bianche questo termine è riportato proprio in lingua italiana.

Come dicevo, Dostoevskij stesso riteneva che in questo tipo di paesaggio diventerebbe più vera la sua descrizione della scena pietroburghese. Un luogo suggestivo e forse inquietante, ma dove l’uomo limita la sua presenza soltanto nel transito verso l’altrove, dove sarebbe impossibile perfino conoscere. «Neppure una conoscenza!» esclama Dostoevskij. «E ogni giorno non faccio che sognare che finalmente un giorno incontrerò qualcuno». In una delle sue più apprezzate immagini, Colucci mostra un angolo del rione materano dei Sassi con una scalinata in primo piano che va a perdersi dietro l’angolo di un palazzo. È una di quelle immagini che animano nell’osservatore il sentimento dell’attesa, il presentimento che da un momento all’altro qualcuno possa venire giù e irrompere nella scena.

Neppure la giovane Nàst’enka può dire di partecipare attivamente alla vita della città. La sua esclusione è determinata dalle restrizioni imposte dalla nonna con la quale convive e che la tiene addirittura legata a sé con una spilla. Cosa resta a Nàst’enka  della realtà? «Possibile che tutto ciò fosse un sogno» commenta Dostoevskij, «anche quel giardino cupo, abbandonato e selvaggio con i vialetti ricoperti di muschio, solitario e tetro, dove essi tanto sovente passeggiavano insieme, dove hanno sperato, hanno sofferto e hanno amato, si sono amati l’un l’altra così a lungo, “così a lungo e teneramente!”»

Potremmo noi considerare sogno tutto ciò che in realtà ci provoca, come ci provoca la lettura de Le notti bianche? È una lettura che ci spinge a tirare fuori le nostre più segrete domande: «E scuotendo la testa esclami: come volano via in fretta gli anni! E di nuovo ti domandi: cosa ne hai fatto dei tuoi anni? Dove hai seppellito il tuo tempo migliore? Hai vissuto oppure no? Guarda, ti dici, guarda che freddo fa nel mondo. Passeranno ancora gli anni e al loro seguito giungerà la tetra solitudine, giungerà la tremolante vecchiaia col bastone, e dietro ad esse l’angoscia e lo sconforto. Impallidirà il tuo mondo fantastico, morranno, appassiranno i tuoi sogni e cadranno a terra come le foglie ingiallite cadono dagli alberi… Oh, Nàst’enka!»

In realtà non c’è nulla di più reale delle domande che il cuore si pone, nulla di più vero dell’attesa. E l’attesa stessa, in fondo, è una domanda: «un giorno incontrerò qualcuno?» Come domanda la giovane Nàst’enka, la quale attende l’uomo che le aveva detto: «vi giuro che saremo felici».

Ma ha senso tutto ciò se il paesaggio, perfino il paesaggio urbano è deserto, abbandonato? A un certo punto, nel racconto di Dostoevskij, l’uomo atteso da Nàst’enka arriva davvero; nel mondo però dove “noi, signori, siamo qui solo di passaggio” l’irrompere sulla scena dell’uomo è così fugace che forse il lettore distratto non riesce nemmeno a coglierlo e il suo sguardo frettoloso è già tornato a posarsi sulle strade vuote. È difficile per l’uomo cogliere una presenza quando questa accade in una frazione di tempo tanto breve da non essere misurabile. Ecco perché ho voluto accostare questo breve romanzo giovanile di Fëdor Dostoevskij alla fotografia di Nico Colucci, un accostamento che farà storcere il naso ai puristi della letteratura. Invece, la fotografia non è altro che la registrazione di frazioni di tempo tanto brevi da non essere misurabili a vista d’occhio. Quella stessa felicità che attende Dostoevskij è così; non essendo figlia del tempo ma dell’eternità, la felicità appare e scompare in frazioni di tempo che sfuggono all’osservazione umana. Ma come nella fotografia, la felicità, seppure apparsa in una frazione impercettibile di tempo, si fissa per sempre in un’immagine.

Un’immagine come quella finale de Le notti bianche che si conclude con queste parole: «Sia limpido il tuo cielo, sia luminoso e sereno il tuo caro sorriso, sii benedetta tu per l’attimo di beatitudine e di felicità che hai donato a un altro cuore solitario e riconoscente! Mio Dio! Un intero attimo di felicità! È forse poco, foss’anche esso il solo in tutta la vita di un uomo?…»

È forse poco un attimo di felicità?


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