Giovedì e venerdì scorsi ho partecipato all’annuale seminario – il terzo della serie – del think tank franco turco “Institut du Boshpore”, creato nel 2009 per contrastare le tendenze islamofobe e turcofobe che in Francia hanno trovato nuova legittimità con l’ottusa e antistorica opposizione di Sarkozy – la cultura francese e la lingua francese sono ancora il riferimento prioritario delle élites turche tradizionali – all’ingresso della Turchia nell’Unione europea. Ne fanno parte intellettuali e imprenditori francesi e turchi (quest’ultimi salvo poche eccezioni francofoni): un modello che potrebbe essere replicato anche in Italia.
Ne parlerò diffusamente con un articolo per l’Istituto Paralleli, mi limito per il momento a offrire qualche spunto per l’eventuale discussione.
Primo, c’è stata unanimità di vedute – da parte della presidente di Tusiad (la confindustria turca), del vice-premier Ali Babacan, del ministro dell’economia Zafer Çağlayan – nell’individuare nel populismo le ragioni delle difficoltà nei negoziati turco-europei, nel ribadire con decisione che l’adesione all’Ue è una scelta strategica mai messa in discussione dalle difficoltà contingenti.
Secondo, c’è stata un’interessantissima discussione sulla “primavera araba” e del ruolo della Turchia, che ha coinvolto studiosi del calibro di Alexandre Adler e Gilles Kepel e uomini politici turchi. Ho trovato particolarmente corrosivi e meritevoli di dibattito i commenti di Adler, che ha individuato come obiettivi strategici della Turchia in Medio oriente: l’ancoraggio europeo così da poter parlare a nome dell’Europa (dell’Europa, non dell’Occidente, degli Usa, della Russia), l’alleanza con l’Iran da costruire attraverso la società civile, un riappacificamento con Israele così da poter svolgere di nuovo un ruolo di mediazione.
Terzo, ha suscitato grosse polemiche il parallelo fatto dalla professoressa Madawi Al Rasheed – saudita di passaporto britannico e docente di antropologia delle religioni al King’s College di Londra – tra Arabia Saudita e Francia: perché entrambe si arrogano la facoltà di decidere – sulla base di una “politica di paura” e del rigetto del diverso – come devono vestirsi o non vestirsi le donne. Alcuni francesi – senza preoccuparsi troppo di nascondere il loro innato senso di superiorità – hanno risposto piccatissimi.
Quarto, mi ha lasciato alquanto perplesso la discussione avuta a pranzo coi colleghi francesi: soprattutto di un collega – non visitatore, ma corrispondente – che nell’imbarazzo generale insisteva nel definire “non laica” la Turchia a causa del Diyanet (il Direttorato per gli affari religiosi che paga e controlla gli imam) e dei corsi di religione obbligatori nelle scuole, ripetendo il mantra ogni qualvolta provavamo a rilanciare spiegandogli che – al di là di queste eccezioni – la legislazione turca è d’impronta rigorosamente laica e he l’Akp non ha fatto nulla per mutarla (è riuscito a prendersela persino con gli ufficiali che pregano in occasione dei funerali dei soldati morti in azione). Non siamo al livello delle marteottaviani, ma poco ci manca.