«L’istituzione del Dalai Lama ha fatto il suo tempo»
Creato il 08 settembre 2014 da Malvino
Il
principio teocratico ha un tratto comune nei monoteismi: chi detiene il potere
è venerabile quanto non altri, ma della sovranità di Dio è soltanto lo
strumento. Non così nel buddhismo, che d’altronde è «religione senza Dio», e
per il quale, dunque, anche parlare di teocrazia è formalmente improprio: non è
l’incarnazione di un Dio, certo, ma il Dalai Lama non è neppure semplicemente massima
autorità spirituale e massima autorità politica insieme, perché il suo corpo è il
medium attraverso il quale è lo stesso Buddha a rivelarsi. Con tutte le riserve
d’obbligo in un raffronto che già in premessa è fortemente asimmetrico, potremmo
concludere che la teocrazia ebraica, quella cristiana e quella islamica siano forme
di governo che affidano al sovrano il ruolo di ponte tra immanenza e trascendenza,
che in quella del buddhismo tibetano, invece, trovano coincidenza nello stesso
Essere che migra di corpo in corpo, e di epoca in epoca. Potrà sembrare
differenza di poco conto, ma non lo è. Nei monoteismi, infatti, il teocrate è
mera variabile del modo in cui Dio dichiara la sua sovranità. Al contrario, quando
il buddhismo si dà in forma teocratica – è questo il caso del buddhismo
tibetano – il teocrate è insieme Kundun e Kyabgon, presenza e salvezza. La
sostanza di questa differenza sta nella portata dell’asse dinastico, che attraverso
il Dalai Lama non si limita a trasmettere un rapporto privilegiato con Dio
come avviene lungo il succedersi di patriarchi, papi e califfi, ma esprime una
continuità dello stesso Bodhisattva, l’Essere che illumina, guida e salva. Differenza
che si esalta nel momento in cui la forma teocratica vien meno: mentre nei
monoteismi la sovranità di Dio sul mondo è solo costretta a esprimersi in modo
più indiretto (privata del potere temporale, l’autorità spirituale continua ad
ispirare la norma mondana), nel buddhismo tibetano il mondo viene ad essere
privato della stessa fonte di sovranità del trascendente sull’immanente.
È lettura
scorretta di cosa implichi l’annunciata rinuncia del 14° Dalai Lama a
reincarnarsi nel 15°? Può darsi, infatti anche metterla in questo modo – dire che
annuncia l’interruzione della linea dinastica – può darsi sia scorretto. Ma poi
può davvero deciderlo? Voglio dire: la dimensione immanente che muove a tale
decisione – perché, vedremo, la sua è una decisione che prende le mosse da
elementi di natura tutta contingente – può condizionare quella trascendente,
che la informa, al punto da modificarne la natura? Anche qui può darsi che a
sollevare la questione sia il non essere all’interno di quell’universo
religioso e culturale, ma – proprio perciò, dico – Tenzin Gyatso non avrebbe il
dovere di spiegare meglio a chi ne è fuori, e contestualmente al suo annuncio, come
sia possibile sul piano dottrinario che lo sguardo compassionevole del Buddha
si ritragga dal mondo?
Niente di tutto questo. L’intervista rilasciata a Die
Welt non dà ragguagli a proposito. «L’istituzione
del Dalai Lama ha fatto il suo tempo», dice, con ciò lasciando intendere
che, quando Altan Khan la istituì, nel 1578, Sonam Gyatso non aveva alcun
potere di dichiararsi 3° Dalai Lama, investendo della carica i suoi due
predecessori. «Così finiscono anche quasi
cinque secoli di tradizione Dalai Lama», dice, e in questo modo dà da
intendere che Gendun Drup (1391-1474) e Gendun Gyatso (1475-1543) non fossero
davvero il 1° e 2° Dalai Lama: in pratica, l’istituzione non veniva a
riconoscere una realtà di fatto, ma di fatto la creava, alla faccia del primato
del trascendente sull’immanente. Tutto normale per chi pensa che anche il buddhismo,
al pari di ogni religione, sia una sovrastruttura, ma qui a dirlo è chi, fin
quando è stato sovrano in Tibet e poi sovrano dei tibetani in esilio, vestiva
la prerogativa come 14° reincarnazione del Cenresig Wangchug. E dire, oggi, che «il buddismo tibetano non dipende da un solo
individuo» e che tutto sommato di un Dalai Lama i tibetani possono fare a
meno, perché «abbiamo una buona
organizzazione della quale fanno parte monaci e studiosi altamente qualificati»,
non è un delegittimare l’istituzione, sottraendogli la sua dichiarata natura
trascendente? E da cosa mai gli viene il potere di non reincarnarsi in un
successore se la progressione di cui non è che un segmento in lui può trovare solo, giocoforza, l’occasione
immanente? Sbagliarono a considerarlo reincarnazione di Thubten Gyatso, 13°
Dalai Lama, o il Buddha della Compassione è reale quanto Cappuccetto Rosso?
Postilla
Come sempre, quando la fede è forte, torna spassoso saggiare quanto le ritorna. Qui, a campione, un buddhista coi controglioni (da His Holiness the Dalai Lama di Deborah Hart Strober e Gerard S. Strober, in ital. presso Armenia, 2006 - pag. 203).
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