Cari Italiani, andate a vedere questo film, per noi è importante almeno quanto “Quarto Potere” di Orson Wells. Tutti ci rendiamo conto del potere che la televisione ha avuto in questi decenni, non propriamente gloriosi, insediandosi nei gangli nervosi più profondi delle nostre teste, cercando di colmare alla “meno peggio” il vuoto identitario generale derivato dal consumo della società dei consumi e poi, al peggio non c’è mai limite, dalla sua inarrestabile crisi. Ma cosa ha prodotto?
Messe da parte le Vele di Scampia, Garrone porta abilmente la telecamera, con la meravigliosa ripresa panoramica iniziale, su una Napoli vulcanica, distesa e dorata, zoomma pian piano verso la vita di Luciano Ciotola, un padre di famiglia che si divide tra un’attraente pescheria nei quartieri spagnoli e qualche piccola truffa per sbarcare il lunario. L’attore è il bravissimo Aniello Arena, ergastolano presso il carcere di Volterra, dove pare che Garrone lo abbia visto recitare proprio in eventi teatrali organizzati dal carcere. Senza nulla togliere al regista, è guardando all’autenticità e alla bravura degli attori interpreti della famiglia Ciotola, che ritorna in mente la frase del grande Orson quando disse: “In Italia basta prendere una macchina da presa e metterci delle persone davanti per far credere che si è registi”. Oltretutto Napoli in particolare, come città dei contrasti antropologici, della variegata bellezza e della decadenza, è una scenografia decisamente fertile e pronta per raccontare dell’Io collettivo, minimizzando di fatto anche l’azione dello scenografo.
Luciano, affascinato dalla facilità con cui un incapace uscito dal Grande Fratello diventa un “eroe” osannato, si lascia convincere dai figli a fare il provino, perché lui è davvero il “personaggio” dei personaggi ed è sicuro che verrà preso. Con questa convinzione e in maniera misera e impietosa, ma al contempo leggera e in un riuscito equilibrismo tra il dramma e la commedia, il bel condominio maledetto della famiglia Ciotola, che un po’ ricorda le atmosfere domestiche e la cornice del teatro di De Filippo, andrà sgretolandosi in una forsennata ossessione verso il successo, visto come “l’opportunità della vita che capita una volta sola”, fino a perdere totalmente il controllo della Realtà. Parola fondamentale nel film. Reality è un’aberrazione cromatica della realtà, qualcosa di talmente controllato da risultare tecnicamente incontrollabile, muovendosi in maniera persecutoria tra l’esistenza e l’illusione.
Il ruolo del Kitsch non è trascurabile in questo film, questi dettagli costruiscono una sonora visione d’insieme di quella realtà che il reality show vorrebbe scimmiottare, essenzialmente vuota, che sguazza nella soddisfazione di carrozze d’oro coi cavalli, matrimoni sfavillanti, improbabili vestiti sbrilluccicosi, marchingegni da cucina costosissimi e di dubbia utilità o tra gli arredi alla “Arancia Meccanica” della casa del Grande Fratello. L’apparire. Il reality è il più futile Kitsch che ci siamo concessi.
Il finale è sospeso e umiliante e si smorza in una risata amara, lo zoom indietro nel cielo nero disperde i sempre più piccoli e irrilevanti riflettori… È una storia vera, dice Garrone, anche se i protagonisti preferiscono rimanere anonimi. È forse La Storia degli anni zero, esasperata e vista dagli occhi di uno spettatore che è illuso cittadino. E per la seconda volta Garrone si prende il Premio Speciale della giuria di Cannes. What’s the next?
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