Si stringe il cuore, a vedere come si sono ridotte le ferrovie italiane: mica quei missili sparati nelle gallerie dell'Alta Velocità, ma i treni che un tempo sugli orari erano detti locali, linee secondarie che generazione dopo generazione hanno accompagnato i cambiamenti del nostro paese, tirando su a bordo pendolari e famiglie dirette in villeggiatura. Si stringe il cuore, perché tra tagli, linee cancellate, stazioni abbandonate non è solo un pezzo dell'Italia del passato che se ne va, è anche un pezzo di futuro.
Però no, L'Italia in seconda classe di Paolo Rumiz (Feltrinelli) non è un atto di accusa contro lo stato comatoso, con poche lodevoli eccezioni, dei nostri treni. Magari è anche questo, ma è soprattutto un viaggio, un grande viaggio nato da un'"idea corsara": percorrere con quei treni 7.480 chilometri, la stessa lunghezza della mitica Transiberiana dagli Urali a Vladivostoc
k. Un viaggio in seconda classe, in un'altra Italia, senza fretta e in effetti anche senza una vera meta, se non quella di volta in volta consentita da (mai facili) coincidenze.
Incontri e pensieri lungo i binari. L'Italia che non è mai come vorremmo e l'Italia che riesce ancora a sorprendere per le sue riserve di bellezza e gentilezza, malgrado tutto. Il treno, dice Rumiz, è una grande macchina della verità. Entra nei luoghi sempre dal retrobottega, li svela impietosamente. Più di tanti saggi documentati, più delle inchieste dei giornali.
Che poi non si tratta solo di capire un paese, guardando da un finestrino. Mi viene in mente Strade blu di Least Heat Moon, straordinario libro di viaggio attraverso un'America percorsa attraverso le strade minori. Allo stesso modo i trenini di Rumiz: un viaggio per capire qualcosa della stessa arte del viaggio e delle sue possibilità.