di Andrea Fais
Le facce preoccupate e i volti tesi della politica fanno da contraltare all’entusiasmo di qualche migliaio di cretini scesi in piazza a festeggiare le dimissioni di Berlusconi. Il nuovo governo, già preparato da mesi, si è insediato sabato sera (quando mai si è votata una legge dello Stato di sabato?) e nel giro di poche ore, soprattutto grazie all’attivismo di Napolitano, che – dopo l’incitamento all’intervento in Libia – è tornato a giocare un ruolo determinante nella politica italiana. Questo governo non ha alcun mandato elettorale, si comporrà di ministri in maggioranza sconosciuti agli elettori, quasi tutti provenienti dai settori della finanza e del capitalismo manageriale, senza alcuna nomina – nemmeno indiretta – di derivazione popolare, e non ha ancora una scadenza prestabilita. L’unico aspetto che per ora appare certo, è che non si tratterà di un governo neutrale o limitato al semplice riordino dei conti pubblici, anche perché un governo tecnico è sempre ed in ogni caso un governo politico, è un governo che prende decisioni e stabilisce disposizioni in materia economica, sociale e giuridica, le quali – a loro volta – vanno a riguardare direttamente la popolazione (cioè lavoratori, pensionati e famiglie) e i settori produttivi (piccole e medie imprese, industrie strategiche e artigianato). Malgrado la vulgata neo-liberale degli anni Novanta, le cosiddette “ideologie” non sono mai “finite” e il momentaneo trionfo internazionale del liberalismo nel 1991, ha prodotto soltanto una serie di finzioni e mascheramenti capaci di trasformare e ribaltare gli schieramenti, rimescolandone le componenti e gli stessi elettorati. La folla eccitata che spinge sull’acceleratore dell’IdV, mentre Di Pietro cercava, al contrario, di frenare bruscamente un corso degli eventi evidentemente considerato pericoloso anche da un anti-berlusconiano viscerale come lui, è un’immagine piuttosto esplicativa della situazione che viviamo: i cittadini italiani sono stati talmente rincitrulliti negli ultimi diciotto anni da ricercare e volere ardentemente (senza saperlo o senza rendersi conto) tutto ciò che di più catastrofico possa esserci per il nostro futuro. La colpa è anche di Berlusconi, perché il neo-linguaggio della “seconda repubblica” ha continuato a mutuare espressioni da “prima repubblica” adattandole al nuovo contesto e confondendo le idee, immaginando la presenza di “giudici comunisti” e di presunti “golpe rossi”, quando in realtà i veri nemici Berlusconi ce li aveva in casa o negli ambienti a lui più familiari: Gianfranco Fini, Luca Cordero di Montezemolo, ultimamente anche la stessa Emma Marcegaglia, i vari frondisti del PDL, la Casa Bianca e tutti quei quotidiani londinesi come l’Economist o Financial Times, al cui confronto Il Giornale sembra quasi un mensile bolscevico. Il teatrino era troppo denso di contraddizioni, ormai. Dopo diciassette anni di mascheramento, i mossieri e i burattinai dovevano pur emergere allo scoperto, permettendoci di capire meglio persino cosa avvenne dopo Tangentopoli, in quel biennio “tecnico” di svendite 1992-1993, quando Ciampi ed Amato gestirono – sempre da “tecnici” – una della fasi più devastanti per la nostra economia nazionale. Tuttavia, c’è ancora chi proprio non riesce a vedere più in là del proprio naso e continua a parlare di “liberazione”, di “ventennio giunto al termine”, falsificando anche la storia a noi più prossima dal momento che dal 1994, i governi guidati da Berlusconi hanno ricoperto solo otto anni dei diciassette totali. E il resto? Meglio che il popolino del centro-sinistra non lo rammenti. Perché altrimenti, dovrebbero elencare nove anni di privatizzazioni, di svendite del patrimonio statale, di “liberalizzazione” nel mercato del lavoro, di assoluta e quasi sempre indiscutibile fedeltà atlantica alla Nato. Nazionalisti? Comunisti? Liberali? Destra? Sinistra? Centro? No. Proprio non ci siamo. Don Camillo e Peppone, sepolti da decenni di trasformazioni politiche e di rinnegamenti su tutti i fronti, non potrebbero avere nulla a che spartire con questa destra e con questa sinistra. Soprattutto Peppone, genuino e bonario sindaco stalinista di una Brescello che non esiste più da almeno quaranta anni. Se quella pittoresca figura dell’Italia degli anni Cinquanta avesse potuto sapere in anticipo che, sessanta anni dopo, i pronipoti del suo partito si sarebbero riciclati in una nuova struttura intenta a sbavare davanti all’icona del presidente degli Stati Uniti e pronta ad appoggiare senza tentennamenti il governo tecnico di un capitalista, di un manager dell’alta finanza internazionale, pure la penna di Guareschi si sarebbe rifiutata di continuare a scrivere. Se Giuseppe Bottazzi, in arte Peppone, avesse saputo che un giorno L’Unità sarebbe stata diretta da personaggi quali Furio Colombo o Concita De Gregorio e che proprio il giornale fondato nel ’24 da Gramsci, avrebbe riportato nell’occhiello le citazioni di Ronald Reagan o tutta una serie di prime pagine pronte ad esaltare le missioni militari della Nato, si sarebbe dato all’alcolismo dopo un rapido abbandono dell’impegno politico militante. Non ci sono davvero aggettivi per descrivere esaustivamente questa specie di popolo della sinistra, completamente devastato, privo di grandi idee e di grandi valori politici, unicamente cementato sul collante dell’antiberlusconismo. E la paura più grande di Bersani, di Vendola, della Bindi e di tutto il gruppo al seguito è proprio questa. Ora che, su ordine della Commissione Trilaterale e della Banca Centrale Europea, Berlusconi viene estromesso dalla politica, quale sarà il ruolo del Partito Democratico, di Sinistra e Libertà, di quotidiani come Repubblica o Il Fatto Quotidiano? Di cosa parlerà Travaglio ogni giovedì sera dagli studi della ex Annozero, oggi Servizio Pubblico? Proprio giovedì scorso, in un faccia a faccia con Feltri, il montanelliano doc, idolo della sinistra nell’intera decade che abbiamo riposto alle nostre spalle, ha gettato la maschera. Non avevamo certo bisogno di quelle sue prime considerazioni nell’era post-berlusconiana per sapere chi fosse, ma giova ricordare il motivo principale del suo ruolo di cronachista giudiziario, indaffarato ad affossare mediaticamente Berlusconi. “Berlusconi non ha fatto nulla di veramente liberale, ha tradito la rivoluzione liberale che promise nel ‘94”. Condivise da Feltri nella sostanza, queste affermazioni lasciano intendere il quadro politico all’interno del quale si è giocato lo scontro in atto negli ultimi diciassette anni, e chi siano – più in alto – i centri strategici che, specie negli ultimi tre anni, hanno cercato in ogni modo di sbarazzarsi del Cavaliere. Lo abbiamo ripetuto ad libitum qui su Conflitti & Strategie, e non abbiamo problemi alcuni a ribadirlo ancora oggi. La politica estera intrapresa dall’Italia negli ultimi anni non piaceva a Washington e a Londra: gli attacchi di Repubblica, ai limiti del razzismo, contro il leader libico Mohammar Gheddafi e contro il presidente del Kazakistan Nursultan Nazarbayev, le continue invettive della stampa (persino di Rai3, un tempo definita- senz’altro bonariamente e di certo impropriamente – TeleKabul) contro la Russia e contro Vladimir Putin, lo scroscio di “fischi” a scena aperta raccolto in seguito alla visita di Stato di Berlusconi in Bielorussia dal presidente Lukashenko, sono segni evidenti che in Italia siamo senz’altro sotto uno stato di dittatura nel mondo della comunicazione. Tuttavia non si tratta della fantomatica “dittatura berlusconiana”, bensì della ben più potente e ben più visibile dittatura atlantica degli Stati Uniti, un’egemonia mediatica e culturale, che seleziona il personale giornalistico adeguato ai propri scopi, scartando ogni voce dissonante. La pseudo-informazione giunta dalle zone martoriate dai bombardamenti della Nato in Libia è esemplificativa del quadro in cui ci troviamo: duecentomila morti, intere città dilaniate dai raid statunitensi, britannici, francesi, italiani e norvegesi, centinaia di vittime nell’alveo delle guerre claniche e razziali scatenate dai “ribelli”, ma non un filmato televisivo in orario da telegiornale nazionale, non una parola sulle responsabilità dell’Onu e dell’alleanza atlantica per la distruzione di un Paese e per la barbara uccisione di un capo di Stato, lasciato morire, come Milosevic e come Saddam, prima che potesse anche solo difendersi dinnanzi ad un Tribunale internazionale, smentendo le ridicole ed infamanti accuse che lo volevano “carnefice” del suo popolo. Roba da colonialismo ottocentesco. Eppure, con il nostro Paese in stato di guerra, l’argomento di punta nei bar e nelle piazze, continuava ad essere la polemica mediatica sulle escort che Berlusconi si sarebbe portato in camera. Non possiamo dunque lamentarci se oggi, proprio alle porte dell’inferno e all’inizio di una delle stagioni più drammatiche per il nostro Paese, vediamo ancora personaggi intenti a discutere di questioni inutili, formali e prive di significato. Quando la fame nera arriverà anche qui, come in Grecia, forse la gente comincerà a scendere nuovamente in strada per qualcosa di serio e di vero: il pane e il lavoro.