L'Italia fragile

Creato il 22 aprile 2013 da Informasalus @informasalus
CATEGORIE: Attualità

In Italia continuano ad essere sfruttate aree tanto fragili quanto belle

Sul nostro territorio dovremmo muoverci delicatamente come dentro un negozio di porcellane: continuiamo invece a sfruttare indiscriminatamente aree tanto fragili quanto belle. E i costi per rimediare ai danni sono superiori a quelli della prevenzione
25ottobre 2011: precipitazioni di straordinaria intensità, tra i 300 e i 500 mm in sei ore, provocano frane e devastazione in un tratto di territorio di circa 700 chilometri quadrati tra la costa della Liguria di Levante e la Lunigiana. Tredici le vittime: i centri più colpiti sono in provincia de La Spezia – Borghetto di Vara, Brugnato, Bonassola, Levanto, Monterosso al Mare, Vernazza – e Aulla in provincia di Massa-Carrara.
4 novembre 2011: tra le 9.00 e le 14.30 su Genova cadono oltre 400 mm di pioggia con un picco di 460 mm a Quezzi, lungo il Rio Fereggiano. Il pluviometro Arpal di Vicomarasso segna il nuovo record italiano di precipitazioni: 181 mm in un’ora. Il Fereggiano che è stato in parte tombato,
cioè trasformato in strada, esonda, trascina tutto quello che trova sul suo cammino, causando cinque morti. Poi raggiunge la confluenza con l’alveo del Bisagno, dove comincia il suo intombamento che arriva fino alla foce, e l’esondazione allaga i quartieri che si frappongono da quel punto fino al mare. Le foto dell’onda d’acqua vorticante che trascina auto, persone, detriti e motorini hanno sconvolto tutti. Ma abbiamo la memoria corta, perché le stesse immagini di auto accatastate, come carte da gioco buttate sul tavolo a fine partita, sono uguali a quelle in bianco e nero dell’alluvione di Genova del 1970, 25 morti e 571 mm di pioggia caduti in 24 ore, precedente record italiano.
Eventi di portata eccezionale,ma prevedibili
La storia della Liguria è un susseguirsi di inondazioni: ad oggi se ne contano 14 tra quelle di maggiore importanza, solo nel dopoguerra. Ma, risalendo per secoli, si trovano frane e alluvioni nel territorio ligure, fragile per ragioni meteorologiche, orografiche e idrogeologiche, alle quali gli umani hanno aggiunto il loro carico di errori. Che sono legati prevalentemente alla massiccia cementificazione, anche attorno all’alveo dei fiumi e alla foce, senza alcuna considerazione per i rischi reali del territorio.
I due eventi di ottobre e novembre non sono, insomma, catastrofi inevitabili e nemmeno disastri dovuti a un’imprevedibilità dei cambiamenti climatici, ma sono il combinato disposto della mancanza di prevenzione e di comportamenti colpevoli. Un binomio che in Italia va per la maggiore: basta ricordare quanto del nostro patrimonio edilizio è inutilizzato (si calcola che ci siano otto milioni di vani vuoti). E non è nemmeno stato messo in sicurezza rispetto al rischio terremoto, che nel nostro Paese è un appuntamento periodico.
Consumi di territorio
Il Sesto censimento generale dell’agricoltura dell’Istat ha lanciato una serie di allarmi, di cui parliamo con Stefano Bocchi, docente presso la facoltà di Agronomia di Milano: «Sono aumentati il suolo urbanizzato e le infrastrutture, consumando soprattutto terre rese coltivabili da generazioni e generazioni di agricoltori, che rientrano nelle categorie agronomiche più pregiate. Nella Liguria il consumo di territorio è il più elevato – continua Stefano Bocchi – perché la Superficie agricola utilizzata (Sau) tra il 2000 e il 2010 è diminuita del 32,59% (vedi tabella). A questo fenomeno si accompagna l’aumento della superficie dei boschi, che non è un dato positivo perché sono lasciati incolti e rappresentano, quindi, un elemento di ulteriore vulnerabilità che ha avuto il suo peso negli eventi dello scorso anno».
Ogni anno 130 mila ettari di Sau cedono il passo ai boschi, seguendo l’andamento delle piccole aziende agricole (tra uno e cinque ettari), che chiudono al ritmo di 200 al giorno, perché non danno reddito sufficiente agli agricoltori: oltre il 48% nel Lazio, il 46% in Liguria e Campania. Una perdita importante di presidi sul territorio che ne aumenta la fragilità, come un proverbio ben sintetizza “se il contadino lascia il monte, il monte lo segue a valle”. Tanto vero in caso di frane e di alluvioni, quanto per quello che riguarda la prevenzione degli incendi.
Aree fragili
Giorgio Osti, docente di Sociologia dell’ambiente presso l’Università di Trieste, ci informa su un altro aspetto dei territori che ne aumenta la vulnerabilità: «Su alcune aree fragili dal punto di vista idrogeologico e demografico, perché spopolate e con una forte presenza di anziani, vanno a insistere ora vecchie minacce, come le discariche, e nuove minacce come quelle rappresentate dall’installazione indiscriminata di impianti per le rinnovabili. Ma un altro anello della fragilità – riprende Giorgio Osti – può essere rappresentato dalla politica e dalla scarsa capacità conflittuale della popolazione, che subisce senza reagire danni ambientali perché non sa organizzarsi per rivendicare i propri diritti».
Non è sicuramente il caso delle valli piemontesi dove dovrebbe passare la Tav, ma su tutto il territorio servirebbe una programmazione di respiro almeno nazionale e di lungo termine per non perdere l’importante presidio rappresentato dalle piccole aziende agricole. In alcuni casi basterebbe poco da parte delle istituzioni: «Per questo ad Agraria di Milano – riprende Stefano Bocchi – è allo studio come mettere in comunicazione la domanda aggrega ta dei consumi collettivi istituzionali e l’offerta disaggregata dei piccoli produttori, che difficilmente rispondono ai bandi pubblici per la refezione scolastica, per le mense degli ospedali, delle università o delle caserme, ma fornirebbero un importante contributo qualitativo».
SCATTI DI FRAGILITÀ
Romagnano al Monte, nel cuore dell’Irpinia. Un paese dimenticato, arroccato su un crinale a picco sulle gole del fiume Platano che in quel tratto segna il confine tra la Campania e la Basilicata. Un’area fragile, flagellata dal terremoto del 1980, dopo il quale il paese fu praticamente abbandonato e ricostruito a 2 km di distanza. Maddalena Zampitelli si è avventurata tra le sue vie, i resti del centro storico, i segni dell’abbandono, per raccontare questa realtà e partecipare al concorso fotografico “Rappresentare le aree fragili” (Valori faceva parte della giuria), lanciato nell’ambito del Convegno “Giustizia ambientale.
La distribuzione delle risorse naturali fra aree tenaci e aree fragili” (organizzato da Banca Etica, dal Gruppo dei soci della provincia di Rovigo, dalla Provincia di Rovigo e dal dipartimento di Scienze politiche e sociali dell’Università di Trieste a Rovigo il 13 e 14 aprile 2012). E le foto di Maddalena – giovane aspirante fotografa napoletana – hanno vinto il premio come miglior progetto fotografico.
Peccioli: la discarica del consenso
In un piccolo comune nel nord della Toscana, si progetta di ampliare una discarica da 2 milioni di metri cubi a 4 milioni e mezzo. Col consenso (indotto) della maggioranza della popolazione locale
Sulle colline pisane, tra bandite di caccia, vigneti, cipressi e campi di grano è collocata la discarica di Peccioli, il principale sistema di smaltimento della Toscana. È il caso esemplare di come un “grosso e puzzolente problema” possa trasformarsi in “gallina dalle uova d’oro”. Il territorio di Peccioli è in un contesto paesaggistico meraviglioso, ma con tutte le caratteristiche della marginalità: lo spopolamento che dagli anni ’50 ha portato la popolazione da più di ottomila a meno di cinquemila abitanti. Nessun collegamento ferroviario con i centri più grandi (Pisa a 40 km, Livorno a 50 km e Firenze a 80 km). Pochi, poco frequenti e su gomma i collegamenti. La gestione industriale della discarica comincia quando, su spinta della Regione Toscana a seguito della chiusura dell’inceneritore di Campi Bisenzio (Fi), l’amministrazione di Peccioli propone e realizza nel 1990 un progetto da 450 mila metri cubi (Legoli 1).
Il sito viene ampliato prima di 1.750.000 metri cubi nel 1995 (Legoli 2); poi ancora di 1.900.000 mc tra il 2004 e il 2007. Ma, visto che dovrebbe esaurirsi nel 2013, il Comune di Peccioli ha presentato un altro progetto per un aumento di 4.500.000 mc in modo che la discarica resti attiva almeno fino al 2028. Tutti i permessi finora sono arrivati senza proteste da parte della maggioranza della popolazione, perché l’amministrazione di Peccioli ha costruito un forte consenso attorno alla discarica. Soprattutto per azione di Renzo Macelloni, che era all’epoca sindaco ed ora è presidente della Belvedere Spa, società di capitali mista pubblico-privata (64% del Comune di Peccioli, 36% azionariato popolare) che gestisce la discarica e ha lanciato numerose iniziative che hanno contribuito ad aumentare la percezione positiva dei cittadini sulla discarica.
Ricordiamo la costruzione di un impianto fotovoltaico ad azionariato diffuso, sgravi fiscali e agevolazioni economiche per gli abitanti del Comune. A opporsi alla discarica della Belvedere Spa, sono per ora solo un manipolo di cittadini, mentre gli appoggi più importanti arrivano dalla gestione stessa dei rifiuti che la Regione Toscana conduce, spingendo per tre nuovi inceneritori e conseguendo una media del 37,2% nella raccolta differenziata (2010), molto inferiore alle prescrizioni normative.



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