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L’Italia non è un Paese per commissari alla spending review

Creato il 16 novembre 2015 da Capiredavverolacrisi @Capiredavvero

Le dimissioni del professore della Bocconi Perotti che il governo Renzi aveva scelto per limare almeno le unghie al nostro Stato onnipresente. L’abbandono dell’economista arriva dopo il flop di Carlo Cottarelli e altri quattro Commissari nominati per revisionare la spesa pubblica già prima di lui. Saltano le teste dei collaboratori dell’esecutivo, insomma, ma la spesa pubblica viene tagliata poco e male, e così non possono scendere davvero le tasse su noi contribuenti

Roberto Perotti è entrato nel gruppo. Il professore dell’Università Bocconi, dopo nemmeno un anno tra Roma e Milano nelle vesti di Commissario governativo alla cosiddetta “spending review”, è andato infatti ad allungare la lista di quei “tecnici” che hanno fallito nel tentativo di ridurre l’enorme spesa pubblica italiana.

Sono cinque in tre anni i Commissari nominati dai Governi di ogni colore per analizzare la spesa pubblica e ipoteticamente tagliarla: c’è stato Enrico Bondi (aprile 2012 – dicembre 2012) ai tempi del governo tecnocratico di Mario Monti, poi puntellato e sostituito da Piero Giarda; sotto il governo Letta, gli succede Mario Canzio (gennaio 2013 – maggio 2013) che però lascia per andare ai vertici della Ragioneria dello Stato e viene sostituito da Carlo Cottarelli (ottobre 2013 – ottobre 2014). Il quale, dopo avere presentato il suo rapporto al governo, per qualche ragione rimasto per sempre secretato, si è dimesso per incomprensioni con l’attuale presidente del Consiglio, Matteo Renzi. Dopodiché è arrivato Yoram Gutgeld, ex McKinsey, già consulente del governo, affiancato appunto da Roberto Perotti. Il lavoro certosino di quest’ultimo avrebbe dovuto arricchire la legge di Stabilità in corso d’approvazione, invece Perotti è stato spinto ad abbandonare Palazzo Chigi e la manovra sarà fatta perlopiù in deficit, vale a dire promettendo più debito pubblico e tasse in aumento nei prossimi anni.

La missione di questo sito, lo avrete capito oramai, è proprio quella di dimostrare nella maniera più circostanziata e chiara possibile il nesso che c’è tra una spesa pubblica in aumento, le maggiori tasse che di conseguenza vengono fatte pesare sulle spalle di noi contribuenti, e il freno allo sviluppo che questo meccanismo diabolico comporta. Complice da una parte la crisi finanziaria e l’innalzamento del costo del debito pubblico, dall’altra i vincoli un po’ ottusi dell’Unione europea, dal 2010 in poi tutti i Governi italiani hanno dovuto quantomeno fare finta di considerare il problema “spesa pubblica”. Sui giornali e sui telegiornali abbiamo ascoltato seriosi esponenti di Governo annunciare a più riprese di essere stati “costretti a praticare l’austerity”; vi abbiamo dimostrato più volte cosa intendessero con questa espressione inglese: non il taglio della spesa pubblica lì dove serve e la contemporanea riduzione dei balzelli, ma piuttosto misure cosmetiche uguali per tutti i ministeri e tutte le Regioni, e un inasprimento della pressione fiscale. L’austerity l’hanno subìta insomma imprenditori (vedi il cuneo fiscale in aumento) e consumatori (vedi l’Iva in aumento) italiani, non il carrozzone pubblico che avrebbe tutto il bisogno di una cura dimagrante.

La parabola dei nostri Commissari ad hoc alla spending review sono l’ennesima dimostrazione di questa allergia al taglio della spesa. Appena arriva un soggetto esterno alla macchina pubblica che si sente in diritto di puntare il diritto su sprechi presenti o razionalizzazioni possibili, dopo pochi mesi, quale che ne sia la ragione ufficiale, viene allontanato a pedate dalle leve del potere. Non sia mai che consigliasse al Principe una qualche riforma che possa togliere risorse e potere al nostro moloch statale! Tutta colpa, dunque, della Pubblica amministrazione brutta e cattiva? Nient’affatto.

La realtà è che in Italia i vari Governi – da quello Berlusconi a quello Monti, da quello Letta, fino a quello Renzi – hanno usato questa figura del “Commissario” come una foglia di fico. Fa chic avere il Commissario agli occhi dell’opinione pubblica, fa comodo poi scaricarlo al momento in cui bisognerebbe impugnare le forbici. La politica non ci mette mai la faccia, come si dice. Che poi è l’opposto di quanto accade nel Regno Unito, il paese dove la “spending review” – che è un’espressione inglese, si sarà capito – è stata inventata; a Londra è il cancelliere dello Scacchiere, cioè il nostro ministro dell’Economia, a fissare obiettivi di spesa e a fronteggiare i ministri e le strutture troppo affezionate ai propri privilegi. Il risultato? Lo dicono le tabelle di Eurostat: in Italia la spesa pubblica era pari al 51,1% del Pil nel 2009 ed è salita addirittura al 51,2% nel 2014; nel Regno Unito era pari al 49,6% del Pil nel 2009 ed è scesa rapidamente al 43,9% nel 2014. Senza Commissari e nell’interesse del contribuente britannico.

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