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“L’Italia non è un paese per giovani”

Creato il 23 dicembre 2013 da Sviluppofelice @sviluppofelice

di Anna Villani

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Fonte: Elaborazioni dati Eurofond, 2012.

In Italia l’occupazione femminile tende a polarizzarsi in attività a basso valore aggiunto e quindi a bassa remunerazione e a concentrarsi prevalentemente su impieghi a basso profilo. Nonostante il rendimento scolastico delle donne sia, ormai da qualche anno, migliore di quello degli uomini, esse non riescono a trovare impieghi corrispondenti alle loro capacità; e a parità di mansione, percepiscono un compenso inferiore di circa 10-20% a quello dei colleghi maschi (in maniera più marcata nei settori privati e in posizioni elevate)[1].
Inoltre, alla nascita di un figlio quasi la metà delle madri italiane decide di uscire dal mercato del lavoro; e, nonostante la gran parte di esse consideri tale uscita provvisoria, soltanto la metà riesce a trovare nuovamente lavoro.

Per i dati di Confartigianato, a tenere distanti le donne dal mondo del lavoro contribuisce lo scarso investimento nei servizi di welfare, che dovrebbero invece aiutarle a conciliare lavoro e famiglia (come ad es. la redistribuzione su entrambi i genitori dei costi dei congedi parentali, oppure le politiche di conciliazione sul posto di lavoro). La spesa pubblica nazionale per aiutare le mamme lavoratrici ad allevare i figli è pari a 20,3 miliardi, equivalente all’1,3% del Pil e inferiore del 39,3% rispetto alla media dei 27 Paesi Ue. L’analisi rivela in particolare che in Italia la spesa pubblica per le prestazioni a favore delle nascite è pari a 3,1 miliardi, inferiore del 26,6% rispetto alla media europea; quella a sostegno della crescita dei bambini è di 2,8 miliardi, più bassa del 51,2% rispetto alla media Ue; e quella a favore dei giovani under 18 è di 6,6 miliardi, inferiore del 51,5% rispetto all’Ue[2].


Avanzata dei nonni in carriera

Secondo la ricerca Censis Gli anziani, una risorsa per il Paese, gli over 65 nel 2015 raggiungeranno per numero la popolazione tra 15 e 34 anni: 12 milioni e mezzo di persone. Dal 2007 al 2012, mentre il numero dei giovani occupati è crollato (da 7 milioni 237 mila a 5 milioni 789 mila, quasi 1 milione e mezzo di posti di lavoro persi: -20%), i lavoratori con più di 55 anni sono aumentati da 2 milioni 766 mila a 3 milioni 445 mila (+24,5%).

Per la ricerca, ciò è dovuto al fatto che il 68,8% dei titolari di grandi aziende preferisce gli anziani rispetto ai giovani quando si tratta di competenze gestionali e organizzative, del riconoscimento nei valori aziendali (58,8%), delle competenze specialistiche (51,5%), della capacità di leadership (52,1%). Ne consegue che gli anziani fanno sempre meno i nonni: la percentuale che si occupa direttamente dei nipoti scende dal 35,8% del 2007 al 22,5%, mentre aumenta dal 31,9% del 2004 al 47,9% la quota di over 60 che contribuiscono con un aiuto economico diretto alla vita di figli e/o nipoti. E sono per lo più anziane le famiglie che detengono consistenti patrimoni, quote rilevanti di reddito, e sono poco o per nulla indebitate.


Aumento dei “Neet”

L’altra faccia della medaglia è che crescono sempre più i “Neet” (Not in education, employment or training), giovani che non studiano, non lavorano, sono scoraggiati dal cercare qualche tipo di occupazione, e preferiscono restare a casa.
Secondo una ricerca di Eurofound, la fondazione dell’UE specializzata nella consulenza sui temi del lavoro e delle condizioni di vita, nel 2011 in Europa 7,5 milioni di giovani di età compresa tra 15 e 24 anni e altri 6,5 milioni di giovani tra i 25 e i 29 anni erano esclusi dal mondo del lavoro e dell’istruzione, per un totale di 14 milioni di giovani.

Ciò corrisponde a un incremento significativo del tasso dei NEET: nel 2008 questa cifra si attestava all’11% dei giovani di età compresa tra 15 e 24 anni e al 17% di quelli tra i 25 e i 29 anni, mentre nel 2011 era salita rispettivamente a quota 13% e 20%.
Esistono notevoli differenze tra gli Stati membri, con tassi che oscillano da valori inferiori al 7% (in Lussemburgo e nei Paesi Bassi) a valori superiori al 17% (in Bulgaria, Irlanda, Italia, Spagna, Grecia, Romania).

In Italia ci sono circa 2 milioni di Neet fra i 15 e i 29 anni (il 22,7%), dato che cresce fino a 3,2 milioni se si apre la forbice fino ai 34 anni.
Ragazzi sfiduciati per la maggior parte residenti al sud e di sesso femminile, che hanno terminato gli studi con la scuola dell’obbligo (28%), ma con un 18% rappresentato da laureati. Il costo economico della mancata integrazione dei Neet è stimata in oltre 150 miliardi di euro, ovvero 1,2% del Pil europeo nel 2011. Alcuni paesi, come la Bulgaria, Cipro, Grecia, Ungheria, Irlanda, Italia, Lettonia e Polonia stanno pagando il 2% o più del loro Pil per la perdita economica dovuta all’inattività dei Neet, non avendo ancora individuato le politiche attive più efficaci per ridurre il loro numero.[3]

Bibliografia

Corsi Marcella, “La signora Cipputi sta ancora peggio” in MicroMega, speciale Almanacco di economia – il ritorno dell’eguaglianza, n. 3/2013

Eurofund, Young people and ‘NEETs’, october 2012.

Italialavoro, “Neet: i giovani che non studiano, non frequentano corsi di formazione e non lavorano” , aprile 2011.

La Repubblica, Economia e Finanza, del 19/10/2013.


[1] ec.europa.eu/justice/gender-equality/gender-pay-gap/index_en.htm.

[2] “Osservatorio sull’imprenditoria femminile”, curato dall’Ufficio Studi di Confartigianato, 2013.

 [3] “European Monitoring Centre on Change”, October, 22, 2012.

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