Al cosiddetto centro di reinserimento sociale (centro de readaptaciòn social, in spagnolo) di Santa Martha Acatitla mandano le donne, ce ne sono alcune migliaia ormai. Una buona parte di loro ci devono restare per molti anni, sentenziate, definitivamente vestite di blu e rassegnate. Altre invece si mettono le magliette, i pantaloni e i cardigan beige il che vuol dire che restano in attesa, s’adattano, vivono nel limbo della legge teoricamente “uguale per tutti” anche se qui nell’America triste e latina lo è solo sulla carta, quella del codice penale, del civile o della tanto celebrata Costituzione del 1917. Un paese come il Messico che ha un tasso d’impunità dei delitti del 97% e un livello di corruzione giudiziaria e politica internazionalmente riconosciuto non può certo vantare un sistema equo ed efficace di sicurezza e giustizia.
Da circa un anno il collettivo AlterIta di Città del Messico, composto da sei insegnanti italiani militanti senza patria fissa, cui s’aggiunge Corina Giacomello, amica insostituibile dei sei professori e massima esperta del sistema penitenziario messicano e di questioni di genere, cerca di usare la linguacultura italiana dentro le pareti del reclusorio femminile, la prigione, come un cavallo di troia per diffondere il germe dell’educazione alla pace: le lingue straniere servono a vestirci di novità e di vita, aiutano a dipingere lo spirito coi colori dell’alterità per affrontare e apprendere il nostro mondo di dentro e quello di fuori.
Come disse un poeta apolide sono “dei travestimenti per l’anima globalizzata” o semplicemente strumenti per uscire un po’ da sé e guadarsi allo specchio. Così questi spazi fisici e mentali diventano uno solo, si fanno universo, sempre più grandi e aperti alla scoperta della diversità e della comunicazione accese dal gioco dell’insegnante che impara e dello studente che insegna. La mente del progetto “lezioni d’italiano in carcere”, Corina, è una che la prigione non la studia solo sui libri ma che la vive, la piange, la rimpiange, ne scappa via, ci ritorna e poi la descrive dall’interno e dall’esterno con le sue parole ma anche attraverso gli occhi delle ragazze nei suoi due libri pubblicati in Messico (Rompiendo la zona del silencio e Los secretos de Almoloya), testimonianze mosse dalla voglia di verità e catarsi.
E’ stata quindi la persona perfetta per introdurci in questa microsocietà fatta di donne guardie e di recluse, di adolescenti, madri, figlie, amanti, mogli, sorelle, lavoratrici che per un motivo o per l’altro sono finite in prigione per qualche mese o per mezza vita, magari in attesa di giudizio oppure senza più speranze di rivedere il mondo esterno.
Come accennavo pocanzi lo stato di diritto che tanto serve alla costruzione delle moderne società democratiche, al funzionamento dello Stato, quello grande che dicono si scriva con la maiuscola, e alla convivenza civile
Infatti la “polizia di transito”, come si chiama qui, deve provvedere alle proprie spese per la macchina e con frequenza usa il codice della strada in suo favore contando anche sul fatto che quasi nessun automobilista è perfettamente in regola con la documentazione e le infrazioni che si commettono sono moltissime a causa dell’indisciplina ma anche per alcune condizioni oggettive della strada e della segnalazione che ti conducono in errore o propiziano “sviste programmate”, un’insostenibile leggerezza nel rispetto delle regole. Quindi la mazzetta (detta mordida), la stupida complicità tra il poliziotto corrotto e il cittadino concusso portano a una normalizzazione di un comportamento incivile ma pratico ed efficace. Lascio immaginare al lettore che cosa succede a tutti gli altri livelli della piramide sociale e giudiziaria.
In realtà è una legge che spesso fa la sfacciata, la facile, ma che alla fine è distante e indifferente ad oltranza. Si tratta d’una messicana norma anormale, geneticamente malleabile e corruttibile, flessibile come l’attesa e il tempo latino americani, ubriaca come la storia che cambia padrone più o meno ogni dieci anni, forse meno.
Per esempio quest’anno in Messico si festeggia il centenario della Revoluciòn mexicana, una sollevazione armata più simile a una guerra civile tra diversi bandi e progetti politici locali e nazionali che a una rivoluzione coerente gestita da un gruppo dirigente o da un partito. Questa affermazione parrebbe una bestemmia antistorica e antipatriottica a molti messicani, ma è in realtà un’interpretazione plausibile che sta prendendo sempre più piede grazie ad alcune pubblicazioni di autorevoli storiografi come Macario Schettino.
E’ la rivoluzione nota in Italia per personaggi come Pancho Villa, Emiliano Zapata, i fratelli Flores Magon, il generale Obregon e Francisco I Madero. Sempre nel 2010 si celebra anche il bicentenario dell’indipendenza dalla Spagna e qui i prescelti onorevoli della fondazione della patria sono i preti Josè Maria Morelos e Miguel Hidalgo. Ebbene quest’anno le discussioni, i libri, i film, i documentari e le conferenze sul bicentenario e l’identità nazionale sono all’ordine del giorno e la reinvenzione costante della storia viene eseguita in chiave politica per schiarire le idee e svecchiare le ideologie dopo il fallimento degli ideali di sviluppo e uguaglianza della Revoluciòn dagli anni ottanta in avanti.
La crisi dei governi del PAN dal 2000 ad oggi con i presidenti Vicente Fox e Felipe Calderon (Partido Acciòn Nacional, di destra) lascia intravedere il ritorno del vecchio PRI (Partido Revolucionario Institucional, per 70 anni dominante in Messico) al potere nel 2012 e irrompe come una spina nel fianco nella retorica del cambiamento e della novità che aveva aperto uno spiraglio al pluralismo politico reale (con tre partiti grandi che si contendevano le elezioni nazionali e regionali) e che tanto aveva entusiasmato il popolo e la classe politica all’inizio del nuovo millennio quando il PRI cedette il passo.
A volte è la stessa legge che ammicca, bella di notte, cercando favori, mazzette di dollari e pesos e colpevoli innocenti da annoverare tra i successi del sistema, cifre ed arresti da sfoggiare per domare la pubblica opinione ed evitare il pubblico ludibrio. Suo malgrado il giorno dopo la legge si toglie il trucco ed è diversissima da come s’era presentata: s’imburra di paroloni, reinterpreta se stessa, cambia look, così come cambiano il potere, i soldi, l’importanza politica oppure più semplicemente il quartiere o la classe sociale d’appartenenza del cittadino che incappa nelle sue brame, fattispecie o fatti che siano. Possiamo credere in Dio, unico e onnipotente, crediamo anche al verbo proferito dai codici del diritto imparziale e universale, ma non so proprio se possiamo credere alle persone che non sono Dio, non sono la legge, ma li usano e ne parlano sempre come se lo fossero.
Prima della costruzione di Santa Martha il carcere della zona orientale di Città del Messico era quello di Lecumberry, nei pressi dell’aeroporto e della stazione degli autobus TAPO, che oggi funziona come Archivio Generale della Nazione e mantiene intatte le strutture fisiche dell’antico istituto penitenziario le quali gli danno un tono austero e inquietante e mettono in soggezione i ricercatori bramosi di affrontare le immagini di sofferenza emanate dalle sue pareti in cambio di un po’ di documenti antichi e una tesi pubblicata da qualche parte.
Oggi invece bisogna partire armati di coraggio e pazienza e percorrere una ventina di chilometri in direzione est rispetto al centro storico e allo zocalo per raggiungere Santa Martha. Questo implica attraversare tutto l’enorme quartieraccio di Iztapalapa, quello dove ogni anno a Pasqua si ripete integralmente il rito della passione e crocifissione di un prescelto abitante che si martirizza come il Cristo sulla croce. E’ un nugolo irrisolto di viette labirintiche tagliato da un immenso vialone a 8 corsie, una vera e propria calzada de los muertos che si trasforma in una pista di atterraggio per autobus rabbiosi e in un campo minato per noi motociclisti (al riguardo consiglio la lettura del diario di Federico Mastrogiovanni). Quasi ai confini del Distrito Federal, alla fine della macchia urbana dove comincia l’autostrada per Puebla ci si ferma per entrare in un mondo parallelo dove è proibito fare foto, usare i cellulari e introdurre oggetti non autorizzati. Chiaramente bastano pochi spiccioli affinché questa regola venga alleggerita, ma non importa.
All’entrata si presenta un documento, un oficio in spagnolo, che contiene i nostri nomi e che ci permette di entrare nel carcere dopo gli ordinari controlli dei permessi di soggiorno e un paio di firme da apporre su dei libroni mastodontici e sgangherati. C’è anche una rapida perquisizione prima di ottenere dei pass di plastica e farsi stampare dei timbri trasparenti sul polso che vanno fatti vedere a un paio di guardie annoiate all’ingresso di alcuni corridoi che portano alla struttura centrale. Si passa una lunga rampa di cemento, el caracol, che si arrampica a chiocciola dal cortile principale fino ai piani superiori della prigione.
Le lezioni d’italiano si svolgono al secondo piano in un’aula del centro escolar, una zona pulita e ordinata dove s’impartiscono corsi di inglese, disegno, spagnolo, matematica, storia e mille altri laboratori e seminari tenuti da volontari, universitari, docenti ma anche dalle stesse recluse che ne hanno le capacità e le qualifiche. Proprio il venerdì, il nostro giorno stabilito per le lezioni, dalle 16 in poi c’è sempre un concerto o un DJ che per qualche ora irradiano l’edificio e i cortili con vibrazioni musicali latine per cui è comune vedere centinaia di ragazze scatenate in danze liberatorie. Alcune ballano accoppiate, con la loro ragazza o con le amiche, mentre altre si muovono da sole lasciandosi addomesticare dal ritmo del reggaeton e della cumbia che fa loro dimenticare il confronto quotidiano con il passato e con la solitudine. Un giorno alcune studentesse del corso ci hanno presentato una giovane aspirante interessata ad entrare nel prossimo corso, era l’unica che poteva permettersi di coprirsi una parte del viso con dei vistosi occhiali da sole perché gode di un certo potere e nessuno la rimprovererà mai: “piacere sono Sandra, adoro l’italiano e vediamo se mi metto in lista per il prossimo semestre”. Si trattava di Sandra Avila Beltran, conosciuta come la Reina del pacìfico (la regina del Pacifico) e catturata nel settembre 2007 perché considerata uno dei capi più importanti del narcotraffico in Messico: probabile ma da dimostrare, come afferma lei stessa denunciando tutto il sistema narco-poltico-militare che le sta dietro nel libro intervista del giornalista Julio Scherer Garcia.
Molte nostre alunne conoscono bene l’inglese mentre altre sono laureate in ingegneria, disegno o economia e possono quindi ottenere punti per “la buona condotta” partecipando o insegnando nei corsi disponibili. Infatti lo scorso aprile abbiamo consegnato loro dei diplomi che certificano un anno di studi per fini interni. All’inizio avevamo una trentina di alunne ma il numero s’è ridotto a 15-20 che hanno continuato quasi tutto l’anno scorso a frequentare le lezioni ma soprattutto a condividere con noi i loro spazi, le loro emozioni, le loro storie e le ingiustizie che in tante hanno dovuto sopportare e continuano a subire mentre attendono la sentenza definitiva o scontano la pena.
Il primo pensiero che ho avuto all’inizio dell’esperienza d’insegnamento-apprendimento in carcere si riassume in alcune domande: “ma che cacchio ci fa questa, così tranquilla, bella, intelligente qua dentro? Qual è la sua storia? Sarà solo colpa sua o c’è di mezzo un uomo, un marito geloso magari, come spesso succede da queste parti?”. In effetti il sistema ha spesso bisogno di responsabili per giustificare le sue funzioni e le indagini vere, se ci saranno, verranno dopo. La colpevolezza si presume e s’incarcera per mesi, specialmente chi non ha abbastanza denaro per gli avvocati, per le mazzette, per la cauzione e tutto il resto, un po’ come succede in ospedale col sistema privato per cui chi non ha la carta di credito generosa e l’assicurazione in regola resta fuori. Qui invece resti dentro con la tutina beige.
Solo dopo alcuni mesi è stato possibile ottenere delle risposte a quelle domande, quando ormai davvero non era più importante, quando la connessione con le ragazze era diventata più forte e non c’importava più di conoscere i dettagli e le cronache. Il fine era diventato un altro: imparare da loro che il tempo, la vita, la semplicità, la gratuità, le piccole cose e la libertà di cui siamo privati quando entriamo nella loro casa e che loro hanno perso da mesi e da anni sono scintille che non vediamo più mentre invece dovrebbero bruciarci e accenderci in ogni momento della giornata spingendoci a fare l’impossibile, ad accarezzare l’utopia come un gatto sornione e traditore che ci fa le fusa per un po’ e a capire che in fondo si tratta di saper apprezzare qualunque inezia come un grasso regalo di Natale. Perciò ringrazio e ringraziamo di aver conosciuto, odiato e ammirato da vicino Santa Martha, una santa curandera messicana patrona delle speranze delle donne e dei loro sguardi precisi che ogni sera sfidano l’angustia dalle fenditure e dei cortili murati alla ricerca di un pezzo di cielo con la luna.