Nei giorni scorsi la Russia ha perso uno dei simboli dell'opposizione al regime di Vladimir Putin. Boris Nemtsov, scienziato e politico di riferimento nell'organizzazione di campagne e manifestazioni contro il leader del Cremlino, è stato freddato nel cuore di Mosca da diversi colpi di pistola sparati da un'auto in corsa, suscitando un'unanime reazione di sdegno presso l'opinione pubblica e presso le cancellerie occidentali.
Eppure, nella stessa modalità che si osserva nel racconto politico e giornalistico della guerra ucraina, anche sull'esecuzione di Nemtsov è possibile ritrovare tutti i segni della reale distanza che irrimediabilmente separa la quotidianità di Mosca da quella delle capitali dell'Ovest.
Da una parte, i leader occidentali e gli organi di informazione (quando non cooptati da interessi materiali o ideologici nei confronti del gigante russo) trovano più semplice commercializzare il nodo geopolitico localizzato a Kiev nella dialettica della democrazia contro la dittatura, del bene contro il male, del “buon ucraino” europeista contro il “cattivo russo” espansionista.
Dall'altra, proprio in Russia, gran parte dell'elettorato plaude ai muscoli del Presidente nativo di Leningrado, protagonista del boom economico di inizio anni Duemila e custode di due promesse: il recupero e il rilancio delle aspirazioni e dei valori unificanti dell'URSS nell'idea di una nuova Russia Unita, e la supervisione proattiva degli accordi stipulati tra la neonata Federazione russa e l'Occidente durante gli anni Novanta.
Che c'entra l'Ucraina con la morte di Nemtsov? Per quanto riguarda la percezione occidentale dell'avvenimento, moltissimo. Dell'uccisione del capo dell'opposizione, che segue un lungo e speculativo dibattito in Europa e America sul declino del regime putiniano, è più o meno velatamente accusato proprio il satrapo di Mosca. A Ovest Putin viene infatti dipinto con naturalezza come un megalomane fuori controllo, o come un orologio che segna sempre e solo l'ora delle repressione, vicino a subire la rivolta di un popolo oppresso.
Ma il quadro generale, qui come in Ucraina, potrebbe essere meno accomodante nei confronti del punto di vista occidentale di quanto sperato dalle élite della politica e dell'informazione. Se sono pochi i commentatori che allo scoppio del conflitto ucraino hanno puntato il dito contro lo spregiudicato tentativo di allargamento prima della NATO e poi dell'UE fino al confine russo, e che hanno consigliato di rispettare gli interessi del gigante post-sovietico sulle immediate vicinanze territoriali, sono ancora meno gli analisti che escludono un coinvolgimento diretto di Putin nei fatti di sangue di Mosca.
Si avvertono anche stavolta i due pesi e le due misure applicati con rigore quasi scientifico verso l'esotica realtà russa: se in uno scenario del tutto fittizio la Russia (o la neonata Unione Eurasiatica) avessero cercato di convincere il Messico o il Canada a far parte della propria sfera di influenza con le armi (non violente ma ugualmente ricattatorie) dell'amicizia politica e dell'unione dei mercati, chi avrebbe urlato allo scandalo di fronte a una reazione militare statunitense? Oppure, in un'altra simulazione di fantapolitica: se negli Stati Uniti fosse stato ucciso il principale oppositore della presidenza, parleremmo di attentato all'ordine sociale o di un atto di salvaguardia dello stesso?
L'obiezione evidentissima è che negli Stati Uniti vige un sistema che rispetta tutti i canoni di democraticità, e che è lecito difendere ad ogni costo; in Russia, al contrario, è l'assolutismo a permeare la natura della vita politica e sociale già dai tempi dello zarismo feudale, passando per il dispotismo socialista e per le fasi torbide del nuovo corso capitalista.
È qui che si annida la “falsa coscienza” dei commentatori: impegnata nel difendere un'idea (pur lodevole) di libertà e di democrazia, alla lente occidentale sfugge il valore assolutamente concreto rappresentato dalla costruzione e dal mantenimento dell'ordine, che è fondamentale in ogni assetto sociale e forse ancora di più in uno Stato multietnico, sottoposto alla violenza della criminalità organizzata e dei gruppi armati locali, e da sempre nell'occhio del ciclone geopolitico come quello russo.
Con la sua agenda politica aggressiva e densa di riforme radicali che ha traghettato il Paese nel nuovo millennio, Vladimir Putin rappresenta per la Russia un elemento di ordine che (soprattutto agli occhi dell'elettorato) ha un valore specifico più alto di qualsiasi libertà costituzionale promossa dalla tradizione illuministica europea.
Allo stesso modo, l'irregimentazione all'interno di un tentacolare schema statale delle selvagge forze economiche e militari che hanno banchettato sui resti dell'URSS durante gli anni Novanta, ha in effetti riallineato il caos sociale dell'era di Yeltsin sulla strada nota del nazionalismo autoritario.
Anche grazie al pacchetto di riforme senza precedenti che hanno stimolato la comparsa di una classe media propriamente detta e che hanno più che raddoppiato i salari reali a partire dal 2000, il corso putiniano ha potuto riposizionare le tessere del puzzle post-sovietico in un quadro (a proprio modo) funzionante e coerente.
Nel grande romanzo del putinismo, che è ancora lontano dall'essere tradotto e reso forse più comprensibile all'occhio non-russo, l'uccisione di un politico che si batteva per un'idea di libertà di stampo formalmente europeo è come il delitto perfetto, in cui tutti hanno un buon movente e a nessuno conviene cercare giustizia.
Gran parte della popolazione russa trova sostentamento materiale nella macchina putiniana di Stato, dei dollari del gas, dell'esercito e della burocrazia. Riesce a riunire i frammenti della propria identità etnica e sociale sotto il cappello della contrapposizione a quell'Ovest che si arroga il diritto di minacciare i confini della Federazione.
In questo contesto la morte senza colpevoli di Boris Nemtsov potrebbe essere il paradossale trionfo di una società che, a differenza di quelle sorte sulle fondamenta delle rivoluzioni francese e americana, ha trovato una speranza di benessere (e un'idea di sé) sotto il pugno di ferro di un uomo solo.
Matteo Monaco
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