L’odio che non conosce età.

Creato il 13 gennaio 2014 da Bruno Carenini @bcarenini

Ad ogni giorno nuovo, ringrazio. Lo ritengo un dovere, da sempre. Fortuna è soprattutto quando e dove si nasce. Basta esser onesti con sé stessi per comprendere osservando il mondo, quanto pur nelle nostre problematiche, fortunati lo siamo. Non ho vissuto gli orrori di una guerra, non porto le cicatrici per i dolori di una dittatura o guerra civile, sono in parte libero di volgere le mie aspirazioni di vita ad obiettivi non preclusi da uno stato sociale, poiché vivo in democrazia e non in tempi ove avrei potuto esser collocato in una classe inferiore. Non subisco discriminazioni per il colore della pelle, credo nel Dio che ritengo “l’inizio e la fine di tutto” e anche non vi creda più, potrei sempre sceglierne un altro senza finire in cella o impiccato. Ho un lavoro, un tetto per dormire e sempre qualcosa per saziarmi. Oggi, le parole di “Francesco” sull’orrore dei bambini soldato mi han riportato per un momento al mio “grazie” giornaliero. Sentir parlare di violenza, di odio è una cosa, toccarlo con mano un’altra e ciò rafforza la consapevolezza di sentirsi fortunati quando questi elementi non non appartengono alla tua vita. La prima volta che lessi e compresi il significato della parola “odio” fu durante la preparazione della tesi, il tema riguardava il conflitto arabo-israeliano. Durante quei giorni in Israele e Palestina vissi a contatto con la gente, donne, uomini, ragazzi, bambini. Parlai molto con loro cercando di capire l’origine di questa violenza, frutto del seme dell’odio. La singola narrazione non provocava in me turbamenti, almeno non tanto quanto lo sguardo degli occhi del narratore di turno. Sentire bambini, dieci, dodici anni al massimo parlare di odio è terrificante. Ascoltarli proclamarsi mezzi di combattimento per vincere una causa, alla loro età è devastante quanto incredibile agli occhi di un occidentale benestante. Un odio germogliato dal dolore delle perdite di padri, madri, fratelli e sorelle e destinato a perpetuarsi all’infinito fino all’eventuale estinzione per mano del nemico. La volta successiva fu nel 1990, durante la guerra del golfo. L’Iraq invase il Kuwait e gli USA decisero di rimettere le cose a posto. In quel tempo ero ancora esterno alle produzioni redazionali per i TG Rai e venni inviato per 15 giorni in Giordania, nella troupe al seguito della giornalista Carmen LaSorella. La Giordania in quel momento non era schierata ufficialmente ma la popolazione aveva ovviamente i propri punti di vista che, piaccia o meno, tendevano maggiormente al disprezzo per l’intervento americano e quindi per noi occidentali. Ricordo le difficoltà ad ottenere interviste nonostante la giornalista schierasse tutta la sua spontaneità e professionalità. Ricordo gli insulti gratuiti che ricevemmo nelle strade, nei mercati, dentro i caffè. In quel momento capii nuovamente cosa significasse subire l’odio di qualcuno. Odio che diviene incontrollabile non solo dal dolore ma in quel caso anche dalla propaganda, dall’ideologia. L’apice di quell’odio lo toccammo con mano nel corso di un servizio girato nell’antica zona del mercato tradizionale, Kan Zeman; ad un tratto fummo circondati da un gruppo di esaltati che al grido “morte agli occidentali” iniziò a menar botte senza sosta. Solo grazie all’intervento della polizia ci salvammo da conseguenze peggiori. Oggi però, più di allora, riesco a comprendere il dramma di quelle situazioni di vita e penso a quanto sia agghiacciante tutto ciò vissuto da un bambino, uno, cento, migliaia di questi bambini che anno dopo anno si trasformano in soldati o guerriglieri.

Luis Mandaki un regista messicano, nel 2004 ha dato un suo importante contributo a questa causa, cercando di portare sul grande schermo l’interiorità, i sentimenti, l’odio che pervade ogni bambino-soldato, nato sfortunatamente in Paesi martoriati da guerre civili e non. “Innocent Voices” questo il titolo del film. E’ ambientato nel 1980 a El Salvador durante la guerra civile e si rifà all’infanzia dello scrittore Oscar Orlando Torres, è lui che dà voce a questo dramma. Chava è un ragazzo di 11 anni che vorrebbe sfuggire agli orrori della guerra civile che dilania il paese. Suo padre se ne è andato all’inizio del conflitto e sua madre Kella si guadagna da vivere per la famiglia cucendo vestiti che poi Chava vende ai negozi. Per Chava si avvicina l’età, 12 anni, in cui i militari reclutano coattivamente i ragazzi. Un giorno suo zio Beto, che si è unito alla guerriglia, viene a fargli visita. Beto vuole prendere Chava con lui per impedire che i militari lo arruolino, ma Kella è contraria. Beto, prima di partire, regala una radio a Chava e gli dice di ascoltare la stazione radio clandestina ribelle al regime “Venceremos”, della quale è vietato l’ascolto da parte dell’esercito salvadoregno; contemporaneamente tra Chava e una ragazza nella sua classe di nome Cristina Maria, figlia della nuova maestra, nasce un tenero sentimento. Una mattina i guerriglieri, durante le lezioni, occupano la scuola e attaccano l’esercito dal suo interno. Ne deriva un cruento scontro a fuoco nel quale perdono la vita alcuni bambini e altri civili e l’edificio viene così chiuso. I combattimenti e le conseguenti ritorsioni e soprusi dell’esercito sulla popolazione civile si inaspriscono e così Kella e la sua famiglia sono costretti a spostarsi fuori città a casa di sua madre in una zona più sicura.Chava compie 12 anni e poco dopo uno dei guerriglieri, mandato dallo zio Beto, lo informa, esortandolo ad avvisare le famiglie del villaggio, che il giorno seguente sarebbero giunti i soldati per il reclutamento forzato dei bambini e così, insieme ai i suoi amici, avverte gli adulti della città, mediante dei biglietti infilati sotto alle porte delle baracche nelle quali vivono, di nascondere i loro figli – che per sfuggire all’esercito si nascondono stendendosi sui tetti. Chava decide di andare a trovare Cristina Maria, ma trova la sua casa bombardata. Dopo quest’ultimo tragico evento che lo colpisce profondamente Chava decide di unirsi, insieme a tre suoi amici, alla guerriglia. Giunti all’accampamento dei guerriglieri però, durante la notte, l’esercito attacca il campo e i ragazzi vengono catturati e portati in riva ad un fiume per essere fucilati, ma all’ultimo momento, dopo che sotto ai suoi occhi due dei suoi tre amici vengono spietatamente uccisi, Chava viene salvato da un attacco della guerriglia.Tornato di corsa a casa, trova sua madre tra le rovine bruciate della loro casa. Lei decide di mandarlo all’estero per salvargli la vita e lui promette di tornare per salvare il fratellino prima che egli compia dodici anni.

Se vi capita fate un viaggio in questo film-documento. Ad oggi sono più di 300.000 i minori di 18 anni attualmente impegnati in conflitti nel mondo. Centinaia di migliaia hanno combattuto nell’ultimo decennio, alcuni negli eserciti governativi, altri nelle armate di opposizione. La maggioranza di questi hanno da 15 a 18 anni ma ci sono reclute anche di 10 anni e la tendenza che si nota è verso un abbassamento dell’età. Decine di migliaia corrono ancora il rischio di diventare soldati. Il problema è più grave in Africa e in Asia ma anche in America e Europa parecchi stati reclutano minori nelle loro forze armate.  Alcuni sono soldati a tutti gli effetti, altri sono usati come “portatori” di munizioni, vettovaglie ecc. e la loro vita non è meno dura e a rischio dei primi. Alcuni sono regolarmente reclutati nelle forze armate del loro stato, altri fanno parte di armate di opposizione ai governi; in ambedue i casi sono esposti ai pericoli della battaglia e delle armi, trattati brutalmente e puniti in modo estremamente severo per gli errori. Una tentata diserzione può portare agli arresti e, in qualche caso, ad una esecuzione sommaria. Anche le ragazze, sebbene in misura minore, sono reclutate e frequentemente soggette allo stupro e a violenze sessuali. In Etiopia, per esempio, si stima che le donne e le ragazze formino fra il 25 e il 30 per cento delle forze di opposizione armata. L’uso di armi automatiche e leggere ha reso più facile l’arruolamento dei minori; oggi un bambino di 10 anni può usare un AK-47 come un adulto. I ragazzi, inoltre, non chiedono paghe, e si fanno indottrinare e controllare più facilmente di un adulto, affrontano il pericolo con maggior incoscienza (per esempio attraversando campi minati o intrufolandosi nei territori nemici come spie). Si dice che alcuni ragazzi aderiscano come volontari: in questo caso le cause possono essere diverse: per lo più lo fanno per sopravvivere, perché c’è di mezzo la fame o il bisogno di protezione. Nella Rep. Democratica del Congo, per esempio, nel ’97 da 4.000 a 5.000 adolescenti hanno aderito all’invito, fatto attraverso la radio, di arruolarsi: erano per la maggior parte “ragazzi della strada”. Ma uno dei motivi più importanti scaturisce da una certa cultura della violenza o dal desiderio di vendicare atrocità commesse contro i loro parenti o la loro comunità. Una ricerca condotta dall’ufficio dei Quaccheri di Ginevra mostra come la maggioranza dei ragazzi che va volontario nelle truppe di opposizione lo fa come risultato di una esperienza di violenze subite personalmente o viste infliggere ai propri familiari da parte delle truppe governative.

Non erano quindi parole tra le tante quelle odierne di Papa Francesco ma parole che nascondono sangue, dolore, impotenza. Nessun padre o madre vorrebbe vedere il proprio bambino/a divenire soldato e meno ancora vederlo morire. Domattina, aprendo gli occhi son certo, non dirò una volta soltanto quel “grazie” ma idealmente, dieci, cento, mille altre volte, sospingendo i miei insignificanti problemi dalla parte dell’ordinarietà.


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