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L’odio di Mathieu Kassovitz

Creato il 16 dicembre 2015 da Taxi Drivers @TaxiDriversRoma
L'odioplay video
  • Anno: 1995
  • Durata: 95'
  • Genere: Drammatico
  • Nazionalita: Francia
  • Regia: Mathieu Kassovitz

«Questa è la storia di un uomo che cade da un palazzo di 50 piani. Mano a mano che cadendo passa da un piano all’altro, il tizio per farsi coraggio si ripete: “Fino a qui, tutto bene. Fino a qui, tutto bene. Fino a qui, tutto bene.” Il problema non è la caduta, ma l’atterraggio.» (Narratore nella scena iniziale).

L’odio (La Haine) è un film del 1995 scritto e diretto da Mathieu Kassovitz, vincitore del premio per la miglior regia al 48° Festival di Cannes. Il film prende spunto dal fatto reale dell’uccisione di un ragazzo delle banlieue parigine da parte della polizia francese. Nella versione originale francese, i dialoghi del film sono in verlan, un tipico gergo parigino, che consiste nell’inversione delle sillabe di una parola per crearne una nuova.

Sinossi: Il film narra le vicende di tre ragazzi della banlieue di Parigi a seguito degli scontri nati dopo il pestaggio da parte di un poliziotto di un ragazzo fermato per dei controlli, Abdel, gravemente ferito e ricoverato in fin di vita. Gli scontri vengono mostrati all’inizio del film con immagini documentaristiche di archivio reali. Il film racconta, con precisi riferimenti cronologici, del giorno e della notte successive agli scontri.

Vinz, uno dei tre ragazzi, è un ragazzo ebreo pieno di rabbia verso la polizia. Vede se stesso come un teppista che merita rispetto e crede che questo debba essere conquistato con la violenza. Hubert è un ragazzo nero che cerca di vivere con tranquillità nel ghetto, odiando ciò che vede intorno a sé. Il suo odio è acuito dalla devastazione della palestra che gestiva, avvenuta durante gli scontri notturni. Saïd è un giovane magrebino che cerca di cavarsela restando a metà strada tra la responsabilità e la violenza del ghetto.

Durante i tumulti, Vinz ha trovato una pistola persa da un agente della polizia ed è deciso ad usarla per vendicarsi, uccidendo un poliziotto, nel caso in cui il loro amico Abdel muoia.

Alla fine Vinz viene ucciso da un poliziotto in borghese e Hubert lo minaccia con la pistola affidatagli da Vinz, mentre i due si puntano l’un l’altro la pistola. Il film termina con un colpo di pistola, ma non si sa chi abbia sparato, se Hubert, il poliziotto o entrambi. [Tratto da Wikipedia]

Recensione: Forse per comprendere quanto è in gioco in questo film è opportuno adottare un punto di vista di tipo marxista. Questo immediatamente significa che l’odio che il film mette a tema non è quello che nella tradizione marxista viene chiamato “odio di classe”. Infatti in questo film non abbiamo a che fare con la classe operaia (più o meno organizzata che sia), ma con quello che Marx stesso chiamava ‘sottoproletariato urbano’ (in tedesco Lumpenproletariat) a cui un intellettuale come Pier Paolo Pasolini ha dedicato non solo la sua attenzione critica e vorrei dire poetica, ma molte pagine della sua multiforme opera a partire almeno dai romanzi Ragazzi di vita (1955) ed Una vita violenta (1959). Infatti i protagonisti di questo film di Kassovitz ci ricordano i personaggi raccontati dal film di esordio di Pasolini: Accattone (1961). Come nel caso di Pasolini così nel caso di Kassovitz non si tratta di un film neorealista o neo neorealista. Essenziale al cosiddetto ‘cinema neorealista’ è da una parte la rappresentazione cruda e diretta della realtà sociale senza retorica ed infingimenti e dall’altra è quello che Pasolini stesso chiamava il ‘prospettivismo marxista’. I film di Pasolini, invece, sono da questo punto di vista espressione di quella crisi del pensiero di orientamento marxista che comincia alla fine degli anni Cinquanta ed al principiare degli anni Sessanta. Di questo è indice lo spostarsi dell’attenzione di Pasolini dalla classe operaia al sottoproletariato urbano delle periferie di Roma e poi delle periferie del mondo. Questo venir meno del supporto ideologico ha cambiato anche la qualità del riferimento alla realtà: se per i registi ‘neorealisti’ questo riferimento alla realtà era ritrovamento ed insieme conferimento di un senso, in questo film di Kassovitz – quando ormai la crisi del pensiero marxista si è definitivamente consumata – il riferimento è ad una realtà insensata ed incapace di dare senso. Lo stesso odio, che dà il titolo al film, non è più espressione di quella che i marxisti chiamavano ‘lotta di classe’.

L’odio in una prospettiva marxista era quasi un corollario di quella teoria che considerava come motore della storia una dialettica tra servo e padrone, tra proletariato e capitale i quali si fronteggiano e si fronteggeranno appunto l’un contro l’altro armati fino al giorno in cui sorgerà per mezzo della vittoria del proletariato una società senza classi quindi più giusta e solidale. Quello che qui importa sottolineare è questo carattere di lotta, questo fronteggiarsi ed opporsi l’un l’altro dei soggetti in campo. L’immagine della lotta evoca proprio la contrapposizione, lo scontro reso possibile dal fronteggiarsi degli avversari. Se nella società proto-capitalistica questo fronteggiarsi era ancora qualcosa di rappresentabile in figura così come erano riconducibili a rappresentazione le parti in lotta – per cui si poteva addirittura delineare una differenza antropologica e non solo sociologica tra padroni ed operai (ancora una volta il riferimento è a Pasolini) per cui l’operaio ed il capitalista erano ben connotati ed il loro ruolo chiaro – oggi non è più così. Questo non significa che capitalisti ed operai non esistano più; non sono essi a venir meno, a venir meno è la rappresentabilità stessa del loro essere in conflitto. Se nella società proto-capitalistica il capitale era facilmente identificabile nella proprietà dei mezzi di produzione, oggi nella nostra società a capitalismo avanzato il vero e proprio capitale è la conoscenza, il know how. Se nella società proto-capitalista la classe operaia era qualcosa di definito e facilmente identificabile (pensiamo ai grandi assembramenti di operai nelle fabbriche della Fiat o della Renault), oggi nelle società a capitalismo avanzato il proletariato si è frammentato, ha perso la sua compattezza di classe fino al punto da non riconoscersi più come tale. Oggi non è più non solo rappresentabile, ma forse neanche pensabile questo conflitto tra capitale e lavoro. Lo stesso capitale è diventato puro spirito (per citare il titolo di un bel libro di Pietro Barcellona). La stessa categoria di ‘imperialismo’ è diventata obsoleta ed è ormai inadeguata a dar conto della situazione odierna proprio perché non c’è più nessun fuori rispetto al sistema capitalistico, per cui si è passati dalla fase dell’imperialismo alla fase dell’impero (il riferimento qui è naturalmente all’opera di Toni Negri e Michael Hardt). Che non ci sia alcun fuori rispetto al capitale vuol dire anche il venir meno della possibilità di contrapporsi al capitale medesimo; viene meno la stessa pensabilità di una lotta di classe e quindi l’odio ha cominciato a girare a vuoto, ha progressivamente perso di vista l’obiettivo contro cui dirigersi, il nemico contro cui lottare al fine di distruggerlo. Questo significa che si è bloccata la dialettica della storia. Venendo meno la contrapposizione tra capitale e proletariato viene meno la sensatezza stessa della storia. Lo stesso ‘essere contro’ si è completamente svuotato di senso e significato. Ora in questo limbo vivono anche i personaggi del film di Kassovitz. Eppure la prima impressione sembra contraddire quanto sin qui detto; infatti il regista costruisce lo spazio ed il tempo dell’immagine filmica attraverso un insistito uso della contrapposizione di immagine ad immagine. Non solo si sposta l’accento sulla frontalità della rappresentazione, ma le inquadrature sembrano articolarsi l’una contro l’altra come se stessimo assistendo ad un incontro di box. Eppure al boxer Hubert manca l’avversario e lui – come il suo amico Vinz – non può che prendere a pugni un sacco di sabbia. Allora questo insistito uso della contrapposizione non è espressione di un effettivo conflitto, ma non è altro che un mimare il conflitto impossibile nel tentativo inutile di trovare un obiettivo contro cui indirizzare tutto questo odio – ma di odio insensato si tratta proprio perché gira a vuoto. E in questo vuoto i protagonisti del film non finiscono di precipitare. In qualche modo sono stati espropriati del loro stesso odio che sembra essere l’unica cosa che ancora gli rimanga. Odiare diventa l’unico modo per convincersi di esistere, di valere qualcosa.

Il film di Kassovitz poi non si limita a rappresentare questo odio, ma vuole portare questo odio alle estreme conseguenze: infatti il regista rappresenta l’odio dei suoi personaggi contro la stessa rappresentazione che il regista ne dà. In tal modo nel corso del film si passa progressivamente dalla rappresentazione dell’odio all’odio della rappresentazione – ecco il senso profondo della citazione da Taxi driver di Scorsese quando Vinz davanti allo specchio che ne riflette l’immagine dirige tutta la sua rabbia. “L’odio – ha scritto Sartre – mira a trovare una libertà senza limiti di fatto, cioè a sbarazzarsi del proprio impercettibile essere-oggetti-per-l’altro e abolire la propria dimensione di alienazione. Ciò equivale a proporsi di realizzare un mondo in cui l’altro non esiste”. Quest’altro da eliminare è lo stesso sguardo del regista che inevitabilmente fa di questi marginali oggetto di rappresentazione esercitando in tal modo su di loro un altro tipo di violenza: la violenza della rappresentazione stessa che rendendoli oggetto di rappresentazione appunto finisce per espropriare i personaggi del film di quel poco di soggettività loro rimasta.

Questo film, dunque, non fa altro che mimare il conflitto proprio perché il conflitto è diventato impossibile; il conflitto, che per Hegel prima ancora che per Marx è il motore della storia, si è bloccato, si è inceppato. I protagonisti del film non possono far altro che giocare ‘a guardia e ladri’ proprio perché sono tagliati fuori dalla storia, costitutivamente marginali, irrecuperabili. E forse è proprio questa loro irrecuperabilità il solo modo di essere realmente liberi (ancora una volta Pasolini).

Tuttavia nel film di Kassovitz c’è un momento dove è chiamata in causa un altro tipo di frontalità, un altro tipo di contrapposizione. Mi riferisco all’episodio del naziskin, quando Vinz gli punta la pistola in faccia seriamente intenzionato ad ucciderlo. Questo faccia a faccia (un faccia a faccia asimmetrico!) estremo e decisivo chiama in gioco una contrapposizione di tipo non dialettico ma vorrei dire etico: mi riferisco al tema del volto dell’altro in Levinas. Ora il volto dell’altro per il filosofo coincide con l’ingiunzione etica ovvero con il comandamento di Dio: “non uccidere”. É questo “non uccidere” che risuona in questa scena, la scena più estrema del film. Se il film narra l’impossibilità stessa di una rivoluzione politica capace di ridare senso alla storia, capace di ridare senso all’odio di questi marginali che possono solo rivoltarsi vanamente contro qualcosa che ha ormai solo la consistenza di uno spettro; ora in questa scena assistiamo alla vera e sola rivolta, la ri-volta del volto: una rivolta etica e non politica. A differenza della contrapposizione politica e sociale che vuole eliminare l’altro (come ben rilevava il Sartre che abbiamo prima citato) la contrapposizione etica esige l’altro, anzi è ciò che ci apre l’accesso all’altro in quanto altro. L’altro – a differenza di ciò che pensava Sartre – non è il limite esterno alla nostra libertà, ma è chi richiamandoci alla nostra responsabilità (il “non uccidere”) ci costituisce per quegli stessi soggetti che siamo radicando la nostra libertà nell’incontro col volto altrui.

Stefano Valente

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