L'odore dei pomeriggi (quando li butti via) - Parte due

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28 dicembre 1994«Oh? Oh! Siamo in ospedale. Apri gli occhi» - sentivo la voce  impaurita di Irene, ma non riuscivo a capire da che parte venisse. Avete presente quella funzione presente nell’autoradio, che vi permette di selezionare quale delle casse deve avere più potenza, se la destra o la sinistra? Ecco, sembra ci sia qualcuno a cui questa funzione piaccia così tanto da bloccarsi, autisticamente parlando, a pigiare il tasto spostando continuamente la voce di Irene dall’orecchio destro a quello sinistro. Ecco che il mio equilibrio va a puttane e mi lascia immobile e probabilmente con la perenne impossibilità di issarmi su questo lettino. Ci provo, ma con risultati più che irrilevanti. Capivo d’essere steso, ma era come se non comandassi nessuno dei miei muscoli, la mia volontà. «Mi senti? Riesci a sentirmi? OH! Toglimi da questa cosa, non riesco a muovermi!» - tentai di parlare, ma non mossi neanche le labbra. “Cosa mi sta succedendo? Oh, Cristo, che mal di testa”. I miei mal di testa sono complicatissimi perché, oltre a succhiarmi il cervello, mi rendono quasi paralizzato. Ciò significa che non posso fare alcun movimento, altrimenti finisce che dalle tempie passa agli occhi e dagli occhi passa alla faccia e mi fa male tutto, quindi conati di vomito, conati di tutto ciò che può uscirmi dalla bocca e dal naso. Vabbè. «Fatemi uscire da qui!» gridai. «Ma come ti dimeni! Sta calmo, no? Fai scappare tutti i pesci. Tieni quella canna e fa’ silenzio; e poi, da dove diavolo vorresti uscire?!» - Era mio padre. Ed io riuscivo a muovermi. “Ma come c’è finito mio padre qui? Che poi mio padre è morto dieci anni fa, impossibile che sia ancora qui a rompere, pace all’anima sua”. Non eravamo in buoni rapporti, ma quantomeno scambiavamo due parole e qualche litigio, quando non ci dicevamo che ci mancavamo a vicenda. Qualche mese prima di morire, lo portammo in ospedale perché stava male, affermava di non star bene e che mia madre continuava a dire che aveva le fissazioni. Mi scappò una risata al pensiero, ma, povero papà, mia madre, quando voleva, sapeva essere più rompipalle di lui. Dimagriva in continuazione. In effetti, gli diagnosticarono un tumore ai polmoni e questa fu la scusa per continuare a fumare quelle dannate sigarette secche e lunghe da zoccola, che pian piano lo portarono via con loro su un posacenere. Cioè, lui ha un’urna. Comunque sia, morì e io, adesso, non ci capisco più nulla. «Cosa ci fai tu qui?» - chiesi sbalordito - «Cosa vuoi che ci faccia qui? Siamo a pesca. Ma vuoi calmarti, faccia da scemo? Se continui così dovrò darti una dose di calmante, amore. Amore, riesci a sentirmi? Devi girarti su un lato. Aspetta, ti aiuto io. Dottore, ma cosa gli succede? FACCIA QUALCOSA» È Irene. E, Dio, se non ha le mani ghiacciate. Mio padre era scomparso e adesso stavo annegando in un mare viola. Era enorme; e nessuna terraferma alla quale aggrapparmi, questa volta. Più mi muovevo o tentavo di nuotare, più annaspavo e respiravo male, ingollavo quella roba viola ed era amara come il fiele. Un’onda enorme prendeva la rincorsa verso di me e d’un colpo ci fu un gran casino di viola, giallo; animali marini scappavano a destra e a manca. Il fondale era giallo, ricco di conchiglie, alghe, mine, palloni bucati, preservativi. Era una discarica! - che schifo - Una discarica. Sentivo che la dose d’aria stava andandosene a quel paese, mi bruciavano i polmoni come se qualcuno li stesse punzecchiando con tizzoni ardenti; stavo per scoppiare, io lo sapevo. Mi sentii tirare con forza verso l’alto e mi mancò il respiro. Fuori dall’acqua urlai dal dolore e vidi una luce straziante. Mi sentivo piccolo e nudo. Urlavo.

Mi risvegliai attaccato a un seno. “Che bella Irene nuda; che bella tutta, lei. Io, invece, non sono proprio il tipo di ragazzo che una bella ragazza possa prendere in considerazione, però è evidente che ho altre qualità”. Che belle quelle tette sode, che buone. Eppure nonostante mi stia saziando e nonostante io non riesca a smettere di succhiare quel capezzolo turgido e pieno, devo anche respirare, quindi tiro un profondo sospiro e alzo gli occhi. L’incubo si fa ancora più strano e a questo punto, sì, anche orrido. Non posso crederci. Dal basso vedo una gigantografia del faccione di mia madre giovane, mi guardo le mani e sono piccole come quelle di un bambino. Ma cosa mi stava succedendo? Mia madre mi guarda e ride, sorride, mi carezza la testa con la delicatezza che sapeva solo lei. Mi sento imbrattato di borotalco e tenerezze. Chiunque vorrebbe tornare bambino, raggiunta una certa età. Ogni persona bisogna di tepore anche in età adulta e, molto probabilmente, quando cresci, viene reciso un cordone ombelicale invisibile e cerchi quella tenerezza in altre persone. Ecco, a me non è mai capitato. Personalmente sono sempre stato scucivolo. Non ho mai avuto interesse per le persone e prima non tentavo nemmeno di farmi una mezza idea sulla gente che frequentavo, quando la frequentavo. Mi chiamavano “diverso” e mi dicevo che, tirando le somme, non ero poi così diverso io, quanto invece quelli che lo dicevano, che erano tutti uguali. Menomale che lo ero, era una fortunaccia. Crescere con la consapevolezza di sapere cosa cercare e scoprire quotidianamente qualcosa di interessante, attraverso un disinteresse a trecentosessanta gradi. Ciò non significava che non avessi bisogno anch’io di tepore umano, piuttosto significava che non mi innamoravo di ogni chiappa che sgusciava a destra e sinistra e che mi interessava più un libro di Goethe che star lì a fissare il culo a una tipa. Fui preso per omosessuale a quei tempi. Nessuna reazione. Mi picchiarono a quei tempi. L’unica reazione fu una risata isterica che mi provocò altre botte, però io ci godevo nel vederli impazzire. Era bellissimo vedere quella luce nei loro occhi, un attimo prima di partire con l’ennesimo calcio, accendersi ogni volta che la mia risposta consisteva in un freddo e sadico sorriso, per la gioia di costringerli ad affrontare qualcosa di molto più grande di loro, con un coraggio che non conoscevano e che rifiutavano di comprendere. «Ninna nanna, ninna oh, questo bimbo a chi lo do? Glielo do alla befana, se lo tiene una settimana» - mia madre continuava a canticchiare ed io avevo gli occhi chiusi. Cominciavo a capire di trovarmi in una specie di revival dei tempi andati, tipo quelli che fanno nelle scuole. Aveva una camicia da notte bianca a pois grigi e le stava divinamente. I lunghi ricci, ovviamente cotonati, di mia mamma, sudati a causa delle ore di travaglio, scendevano un po’ sul suo viso sfatto da camera d’ospedale. Pensai che mia mamma era proprio felice di vedermi, solo che, se adesso sapesse cosa le presenterà il futuro, non credo che manterrebbe la stessa gioiosa, sognatrice, faccia da donna perbene.Sid

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