L'Odore della Notte
di Claudio Caligari
con Valerio Mastandrea, Marco Giallini, Giorgio Tirabassi
Italia, 1998
genere, drammatico
durata, 92'
Il noir italiano può fregiarsi di un numero cospicuo di
autori e titoli di consistenza davvero importante, avendo esemplarmente dato
vita ad uno dei generi minori più frequentati nel cinema di genere. Il decennio
che anticipa lo scoccare del ventunesimo secolo sembra essersi appropriato, per
meriti storici di non poca importanza, di un modo di fare cinema che si
sviluppa con sempre maggior aderenza alla realtà, pur continuando nel solco
dell’aderenza al modus operandi cinematografico classico, permettendo sperimentazioni
ulteriori del mezzo filmico soprattutto in epoche recenti (si vedano i casi
delle opere a regia Stefano Sollima o Francesco Munzi). La frenesia che
accompagna l’azione, tipica di tale genere, si ravvede nella prima metà della
seconda opera di Claudio Caligari, il regista da poco scomparso che oltre a L’Odore della notte ha posto la propria
firma anche su Amore Tossico ed il
postumo Non essere cattivo): il ritmo
è piuttosto concitato e permette una comprensione adeguata dello script
proposto, lasciandoci immergere immediatamente nel vivo della storia.
L’incipit
presenta in medias res uno degli elementi fondamento di questo film, ovvero gli
inserti di rottura della “quarta parete”, quella particolarissima metodica adoperata
solamente in poche occasioni (in tempi recenti sia nella serialità televisiva
cult – House of Cards, dove ad
usufruirne era il perfetto Underwood/Spacey – sia nella cinematografia,
indipendentemente dal genere – Deadpool
ed i siparietti ironici del protagonista) ma che dona immediatamente un’impronta
di originalità all’opera che ne approfitta. La banda viene presentata come un
ideale prototipo, sgangherato e molto meno organizzato, dei malviventi
protagonisti di Romanzo Criminale, all’interno della quale tutti sembrano
agognare ad un nuovo colpo per meri intenti personali, uscendovene alla prima
possibilità. Remo, al quale da volto il carismatico Mastandrea, si fa trait d’union
in voice over del gruppo e ne presenta i singoli componenti al pubblico, in una
curiosa miscela di titoli in sovraimpressione, voice over dello stesso e
rottura della quarta parete – a mo’ di interrogatori su asettici fondali –
degli interessati: Maurizio e Roberto completano la primordiale terna
borgatara, lasciando ben presto il posto a quei reietti di matrice pazzoide che
Remo avrebbe voluto tenere il più lontano possibile dall’azione criminale
congiunta.
Il reclutamento del Rozzo comporta una deriva violenta delle rapine
utile, tuttavia, a sventare il riutilizzo di personaggi di dubbia provenienza
(probabilmente fratelli di quei Cesare, Enzo e Roberto motori primi immobili di
quel brodo criminale primordiale che risponde al nome di Amore Tossico) e permettendo all’ex agente di polizia di liberarsi
dei propri demoni acquisiti in servizio e dare libero sfogo alla sua carica
psicologica. Il tratteggiamento caratteriale prosegue di pari passo con il
metaforico, in un continuo rimando di giochi metalinguistici davvero
meritevoli: se da un lato la Roma inquadrata da Caligari sembra assomigliare
moltissimo ad un mashup visivo con inserti dall’atmosfera intrinsecamente
macchiata di rosso Argento (il grigiore, le inquadrature ed il Tevere de La terza madre) e di pioggia nera come
la pece (gli acquazzoni onnipresenti in Suburra),
dall’altro il regista mostra interessanti frammenti di problematiche della vita
quotidiana riflessi nella vita romana. La vita dei componenti di questo
sgangherato trio-quartetto si macchia progressivamente di reati in crescente
ordine di ferocia, incrostando le loro anime al pari del fornello davanti al
quale Remo si blocca ed inizia a riflettere su ciò che quei ragazzi sono
diventati; il furto si mischia col terrorismo, la necessaria ma vana ricerca di
una nuova identità con la sempre maggior frequenza di indispensabili rituali
purificatori (il lavarsi le mani tinte di sangue provando, in qualche modo, a
ripulire le proprie coscienze) oltre alla dose di metalinguismo che piomba
sulla scena con i manifesti dei giornali, con la rottura volontaria del
televisore e l’inserto musicale ad opera di un Little Tony curiosamente utile
alla narrazione.
Le note di Cuore Matto e Cicale si differenziano in uno score
musicale particolare che si unisce alla bella fotografia notturna del Calvesi responsabile
in futuro delle luci di Mine Vaganti
e Non essere Cattivo. Caligari abusa,
senza stancare, in carrellate e si avvicina ai personaggi voyeuristicamente,
scorgendone i passi tra fessure che si aprono in muri e cancelli, all’interno
del film più cinematografico della sua trilogia, non lesinando in rimandi ed
omaggi (il simil-trunk shot tarantiniano e la scena del vomito già apparsa nel
suo primo film). Se la pioggia e l’acqua di fonte laveranno i peccati dalle
anime dei protagonisti non ci è dato saperlo, ma Caligari espia questi ragazzi
di borgata senza moraleggiare, li fa confessare senza rimorso e ce li avvicina
più di quanto ci saremmo aspettati.
Alessandro Sisti