A cosa serve l’Oecd, l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo? Per un effettivo controllo della corruzione o, piuttosto, per l’asservimento delle politiche fiscali nazionali ai centri di potere?. L’Oecd è espressione del Foro globale, il club dei paesi ricchi, e richiede la certificazione tributaria a tutte quelle nazioni che vogliano trattare con l’elite mondiale. La dipendenza c’è e si sente, anche e soprattutto in America Latina, dove nemmeno Brasile e Venezuela, nonostante la loro voglia di leadership regionale, hanno saputo dire no alle esigenze del club. L’Oecd sulle sue basi ha stilato la lista “grigia” dei paesi che vengono considerati paradisi fiscali, un elenco che comprende la Svizzera e il Lichtenstein oltre all’Uruguay. Ora, dopo le ultime prove di trasparenza finanziaria, tre paesi centroamericani sono rimasti impigliati nella rete del club: Costa Rica, Guatemala e Panama. Tutti e tre si sono detti pronti a mettersi in regola, ma rimane da definire dove voglia arrivare la legislazione sovranazionale dell’Oecd. In gioco, ci sono infatti i diritti e le leggi delle nazioni coinvolte, che vengono calpestate ed ignorate in nome di un ipotetico controllo sulla corruzione internazionale.

Eduardo Morgan jr., ex ambasciatore di Panama negli Stati Uniti, aveva letto bene tre anni fa quale era lo scopo dell’Oecd: eliminare la concorrenza. Si tratta, insomma, del solito organismo che, affiliato al Foro globale, cerca di fare piazza pulita di ogni avversario per procurarsi per sé tutti i benefici. La minaccia, poi, è sempre la stessa: chi non segue le regole si espone alle sanzioni commerciali. Un gesto tipico del potere che detengono i paesi ricchi, che vogliono disegnare le politiche dei paesi più poveri secondo le loro regole. Il ranking dell’Oecd, in fondo, assicura il controllo fiscale e tributario nelle aree in via di sviluppo. Un’imposizione, insomma, che implica un intervento diretto nelle legislazioni di paesi sovrani, che indica quali vie politiche e mete sociali devono essere perseguite.
Per la cronaca, Guatemala, Costa Rica e Panama hanno sei mesi per mettersi in regola. I tempi sono brevi: le riforme fiscali nei primi due paesi sono ferme nei rispetti congressi, complici mozioni e ritardi di forma. Panama, invece, continua a pestare i piedi: lo ha già detto il presidente Martinelli nella sua recente visita in Europa, che il suo paese è in regola. Vedremo. Intanto, il tempo scorre e l’embargo s’avvicina.






