L’omaggio “Ben” fatto di Affleck al cinema

Creato il 20 novembre 2012 da Ilnazionale @ilNazionale

20 NOVEMBRE - “Anche una scimmia, dopo due giorni, impara a fare il regista”. Con quest’ironica frase, messa in bocca da uno dei protagonisti, si può intuire già molto di  “Argo”, l’ultima, convincente opera di Ben Affleck. La bontà del film si annida, infatti, anche (e potremmo persino dire, soprattutto) nella regia del quarantenne americano, capace di inserire una sorprendente dose di (auto)ironia in un tema che a dire il vero più serio di così non si può. E così l’ex enfant prodige del cinema indipendente americano (insieme all’amico Matt Damon firmò il commovente “Will Hunting” quando era ancora un ragazzino) è oggi attore consumato, ma soprattutto un valido director capace di portare a casa un bel successo senza sbavature, grazie soprattutto ad una storia che meritava di essere raccontata. Quella, cioè, dell’ex agente della CIA Tony Mendez che nel 1979, all’epoca della grave crisi diplomatica USA-Iran, salvò sei cittadini americani con un’operazione tanto folle quanto geniale: far passare per un’improbabile troupe cinematografica canadese in cerca di location (per un B-movie di fantascienza) il gruppo di malcapitati diplomatici e grazie a questo stratagemma portarli fuori da Teheran e il paese mediorientale senza alcun tipo di intervento militare. Senza spargimenti di sangue, insomma. Pur con l’altissimo rischio di fallire e venire giustiziati seduta stante.

 Il metacinema (il cinema che raccolta il cinema) può apparire un fil rouge latente e fragile (in realtà nella pellicola, a ben guardare, sono ben più predominanti gli elementi del thriller di spionaggio) in Argo, ma in realtà è davvero ciò che vuole raccontare Affleck, che omaggia in questo modo l’arte che tanto ama e che già tante soddisfazioni (oltre a qualche bastonata) gli ha dato. Sono molti, d’altronde, gli autori che, prima o poi in carriera, intendono in qualche modo dedicare un film proprio alla cinematografia. Basterebbe pensare al recente e meraviglioso “Hugo Cabret” di Martin Scorsese. Affleck, però, sceglie per certi aspetti un modo ancora più originale. Qui infatti non si parla di magia, di passione, di sentimenti o quant’altro. No, qui l’arte della “bugia” (quella propria di tutti coloro che bazzicano ad Hollywood e dintorni, come viene sottolineato a più riprese) diventa una virtù vera e propria, soprattutto se applicata in tempo di guerra per salvare vite innocenti. Diventa a tutti gli effetti una scappatoia scaltra e intelligente per salvare la vita altrui senza colpo ferire. E, allo stesso tempo, un modo per sopravvivere. E in questo senso appare chiaro come proprio il cinema sia l’interlocutore più adatto ad aiutare i servizi segreti in un certo tipo di operazioni di “camuffo”, le uniche a poter dare qualche chance (“buone”, ma non si capisce a che percentuale possa corrispondere questa aspettativa) di successo. E tornando al metacinema, la telecamera a spalla, spesso utilizzata da Affleck come vero e proprio punto di vista realistico dello spettatore soprattutto nelle scene di concitata agitazione e preoccupazione per la propria sorte che spesso i protagonisti si trovano a vivere, consente di entrare anche visivamente (oltre che sonoramente) nella confusione, nel delirio collettivo, nell’atmosfera esaltata dei gruppi di protesta (davanti all’Ambasciata Americana a Teheran, all’inizio del film, ma non solo) e nella vita caotica della stessa capitale iraniana all’epoca dei fatti. Il merito di Affleck, in questo senso, è anche quello di riuscire, pur con le opportune e se vogliamo necessarie esagerazioni del caso, a ricostruire in maniera credibile una sequenza di eventi che anche storicamente hanno dell’incredibile.

John Goodman e Alan Arkin

Il film è per certi aspetti lento nella sua preparazione, ma ha nei suoi momenti clou riesce a creare una tale suspence, da suscitare vera e propria commozione nello spettatore, che non può non sentirsi coinvolto dalle paure, le lacrime, la determinazione vissuta dai protagonisti di questa avvincente storia. Sugli interpreti va spesa una menzione particolare sui due giganti Alan Arkin e John Goodman e su Bryan Cranston, dirigente della CIA che riesce, con la sua grinta capace di smuovere tutto e tutti alle più alte sfere nazionali, ad aiutare da lontano l’agente sul campo Tony Mendez – Ben Affleck, il quale sceglie – forse volutamente, chissà – un profilo monoespressivo per tutto il film che non gli rende onore e che pur non inficiando il valore dell’opera in generale, fa scendere leggermente le sue personali quotazioni.

Il leit motiv con cui si apre e si chiude il film, “Argo vaffanculo!”, rappresenta più che una sorta di parola d’ordine, un modo (anche divertente) per dire grazie – certamente in modo ironico – ancora una volta al cinema. Che anche in tempo di guerra riesce a dare un contributo concreto a chi ne ha bisogno. Che anche in tempi “grami” come questi riesce a sfornare una storia degna di essere assaporata, dall’inizio alla fine.

Ernesto Kieffer


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