Nei Diari, Kafka scriveva: «Io ho potentemente assunto il negativo del mio tempo che certo m’è vicino e che io non ho il diritto di combattere, ma, in certo modo, di rappresentare». Rappresentare il negativo è l’unica maniera che l’artista ha per combatterlo, è l’unica maniera che al poeta rimane d’essere partecipe del proprio tempo e svelare i mali che il resto dell’umanità non riesce né a vedere né a toccare. Il mondo entro il quale Kafka viveva s’avviava ad essere un mondo dove l’atrocità e la violenza gratuita sarebbero divenute leggi di Stato: «La guerra non mi suggerisce nessuna idea degna di essere comunicata». Quali discorsi sono leciti di fronte ad un evento così sconvolgente? Perché ragionare della guerra è pur sempre un modo di darle un senso e quindi di giustificarla. Ma lo scrittore avverte l’inutilità di questo impegno, in quanto il suo discorso nulla cambia. Kafka ha presentito il fatto che la società del XX secolo cominciava ad essere sempre più disumana. L’uomo cominciava a cessare d’essere il motore e centro della storia. Sempre più saremmo diventati esseri controllati da entità il cui senso e la cui ragion d’essere ci sono completamente sconosciuti. E le chiavi d’accesso per penetrare in quel mondo si sono perse nell’universo ridondante della comunicazione.
Il tempo successivo s’è incaricato di lenire la rappresentazione che Kafka ci ha offerto del negativo, immergendola in un universo pacificato, dove l’inquietudine e l’angoscia del vivere quotidiano diventano categorie dello spirito, buone ad essere discettate nei quotidiani programmi d’intrattenimento televisivo. Sotto i ferri preziosi della chirurgia critica, l’opera di Kafka ha subito una lobectomia, nella quale la parte più inquietante è stata del tutto asportata. Le migliaia di titoli della bibliografia critica kafkiana impediscono al “profano” l’accesso diretto alla sua opera e gli dànno la sensazione che su di essa tutto è stato detto e tutto è stato scritto.
La sua opera è stata sezionata migliaia e migliaia di volte, e pertanto nulla si può dire, nulla si può aggiungere. Ma la critica si è esercitata con l’opera kafkiana come nel vuoto, perdendo con essa ogni contatto: il critico o il giornalista di turno non vivono nell’inquietudine e nell’angoscia di quell’opera. Trascorrono un’ora della loro vita a scrivere tranquillamente su Kafka e poi, senza esserne minimamente segnati, vanno quella sera stessa a distrarsi al cinema o al teatro. Quell’opera è apparsa come un meteorite nella loro esistenza, come un oggetto con il quale vale la pena di intrattenersi qualche ora, ma che non conviene prendere troppo sul serio. Non vivendo nell’esperienza traumatica di Kafka, costoro non sono neanche capaci di comunicarla agli altri.
Si è persa di vista l’originarietà da cui Kafka ha tratto la sua forza e la potenza della sua arte: l’essere stato, egli, uno scrittore diverso da tutti gli altri, uno scrittore che potremmo definire, se ci si intende bene su questo termine, “visionario”. Si potrebbe essere tentati ad attribuire a questo termine una valenza magico-ritualistica, legata alla Cabala o all’arte della divinazione. D’altronde, anche la cultura ebraica, alla quale Kafka appartiene, potrebbe avallare tale interpretazione. Ma per me il termine “visionario” ha tutt’altro significato. Le visioni, nell’accezione corrente, sono un privilegio riguardante chi ha un rapporto mistico con la realtà dell’esperienza, per cui esse si presentano come delle illuminazioni che d’improvviso squarciano il velo e permettano di vedere realtà altrimenti impossibile da vedere.
La metamorfosi, ad esempio, rappresenta in modo esemplare questa lettura visionaria di Kafka: un uomo, inspiegabilmente, viene ridotto alla condizione animale, e la cosa viene accettata come normale, non solo dal protagonista, ma anche da tutti coloro che lo circondano. Nei campi di sterminio nazisti, le donne e gli uomini venivano ridotti alla condizione animale, e la cosa appare del tutto normale, non solo agli aguzzini ma anche alle stesse vittime (leggi Primo Levi, Se questo è un uomo). Il racconto risale al 1915, i campi di sterminio (dove moriranno le tre sorelle di Kafka) al 1941 (se non erro), ossia dopo venticinque anni. Di che si tratta, dunque? Di preveggenza? Ma Kafka non ha "visto" i campi di sterminio, ma ha presagito cosa la storia stava riservando alla umanità, come altri uomini avrebbero un giorno offeso in modo indelebile l'essere umano. Come si può definire tutto ciò? A noi lettori di questi tempi il compito di decifrare i segni di questa infausta deriva esistenziali. E a noi "scrittori" trovare parole che sanno codificare i segni di questa deriva.
Chi ha un tale approccio con la realtà deve trovarsi in uno stato di grazia, o almeno credere di essere toccato dalla grazia, ma non era questa la condizione di Kafka: «Io non sono stato introdotto nella vita, come Kierkegaard, dalla mano già cadente del cristianesimo, e neppure ho afferrato l’ultimo lembo dileguante del mantello ebraico da preghiera. Io sono una fine o un principio». Quel che a Kafka manca è, appunto, la fede, senza la quale non si può essere toccati dalla grazia. Dalla vita non ci si salva, ma si subisce solo la condanna. Allora, dalle visioni kafkiane, cancellate l’afflato mistico-teologico, rimane soltanto il tetro spettacolo della morte. Le sue visioni si caricano non di un messaggio di speranza, ma di un presagio oscuro senza alcun anelito luminoso. Ed è questo il messaggio ch'ancora c'inquieta nell'opera kafkiana.
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