L’OMBRA DI MICHELANGELO #Caravaggio #arte #pittura

Creato il 06 aprile 2015 da Albertomax @albertomassazza

Nomen omen, dicevano i latini. Nel nome il destino: mai come per il Caravaggio tale locuzione appare appropriata. Impostogli dagli onesti coniugi Merisi (il padre, Fermo, originario del paese bergamasco reso celebre dal figlio e trasferitosi a Milano per esercitare la sua arte d’architetto), con ogni probabilità in onore del Santo celebrato in quel fatidico 29 settembre del 1571, San Michele Arcangelo appunto, quel nome dovette divenire un’ossessione per il giovane pittore dallo smisurato talento, quando, in cerca di fortuna, giunse a Roma tra il 1592 e il 1593. L’altro Michelangelo, seppur morto ormai da quasi trent’anni, aleggiava incombente sulla città eterna, sostenuto dalla fama imperitura dei numerosi capolavori che aveva disseminato nella capitale papalina. Per il giovane e irrequieto lombardo, i titanici affreschi lasciati dall’illustre omonimo predecessore nelle Cappelle Sistina e Paolina furono fonte di ammirazione e sprone a spingere il suo prorompente talento verso orizzonti assolutamente inediti per la storia dell’arte. Il Merisi,   nell’esempio michelangiolesco, colse i presupposti che da sempre accompagnano il genio artistico nello sviluppo della sua opera: la tradizione dei maestri e l’ambizione di superarli. Con l’occhio illuminato da cotanta meraviglia e il ventre roso dall’urgenza d’andar oltre, il Caravaggio attese l’occasione buona per liberare il suo buon nome di battesimo dall’ombra lunga proiettata dall’ingombrante omonimo predecessore.

E l’occasione giunse nel settembre del 1600, allorquando Monsignor Tiberio Cerasi commissionò al Merisi, per la sua Cappella privata in Santa Maria del Popolo, due dipinti aventi per soggetto la Conversione di San Paolo e la Crocifissione di San Pietro, gli stessi temi trattati nei grandi affreschi del Buonarroti oltre mezzo secolo prima, per la Cappella Paolina del Palazzo Apostolico in Vaticano, estremi capolavori pittorici del genio di Caprese. La repentina morte del Monsignore costò al Caravaggio il rifiuto delle prime versioni dei dipinti da parte dei subentranti committenti, a causa dell’eccessiva crudezza e dell’esser stati eseguiti su tavola: solo la Conversione di San Paolo è pervenuta fino ai nostri tempi ed è nota come Conversione Odescalchi Balbi. Il Merisi ripropose i due soggetti su tela e stavolta vennero sistemati nella Cappella Cerasi di Santa Maria del Popolo, dopo che nella stessa vennero ultimati i lavori di restauro. Il Michelangelo lombardo affrontò i due soggetti senza alcun timore reverenziale nei confronti degli ingombranti antecedenti buonarrotiani. Il coreografico pathos della Cappella Paolina venne riportato dal Merisi alla cruda essenzialità del dramma; le imponenti scene di massa michelangiolesche ridotte ai pochi testimoni dei fatti narrati; i personaggi, ad eccezione dei santi protagonisti, resi come anonimi esecutori degli ineluttabili eventi; il colorismo pallido e il luminismo irreale del Buonarotti volti  in deflagrante esplosione realista, tesa al prorompente plasticismo drammatico, ormai pienamente divenuto marchio di fabbrica dell’acclarato nuovo genio della pittura. A suggello della prepotente rivendicazione del lombardo, il già (per umile richiesta dello stesso crocifisso, restio ad una così aderente imitazione del Cristo) rovesciato martirio di San Pietro, ulteriormente rovesciato nella disposizione, rispetto al precedente del Buonarroti. Non più il Caravaggio, o Michelangelo minore, o secondo Michelangelo, ma Michelangelo Merisi da Milano o da Caravaggio, che dir si voglia!



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