Con sorpresa e qualche turbamento ho letto su la Repubblica del 25 maggio 2013 le riflessioni di Davide Tancredi dal titolo Io, gay a 17 anni chiedo solo di esistere. Quella lettera mi ha sorpreso e turbato perché racconta di una pericolosa e disarmante ingenuità e di un qualunquismo infarcito proprio di quella cultura omofobica che il giovane vorrebbe combattere e che si declinano in affermazioni come “… non a tutti è data la fortuna di nascere eterosessuali … se ci fosse un po’ più di commiserazione e di carità cristiana … siamo solo sfortunati partecipi di un destino volubile … chiediamo solo di esistere …”. La sensazione più inquietante è stata quella di assistere al sermone di un pastore cattolico che, sulla base di un presunto giusnaturalismo – tutt’oggi argomento di dibattito delle scienze umane e biologiche e delle filosofie – chiede carità e perdono per chi è stato vittima di un errore di natura. Insomma, un salto indietro nel tempo di almeno un secolo che non tiene conto della storia umana.
L’argomento è complesso perché riguarda le persone ed inevitabilmente ricade entro la tematica più ampia delle disuguaglianze sociali. Del resto il tema riguarda la democrazia che in quanto tale dovrebbe tendere all’ampliamento della sfera dei diritti per consentire ai cittadini il pieno esercizio delle libertà. L’argomento, però, in questo caso, è stato affrontato in maniera inadeguata, immatura, argomentando in maniera retorica ed approssimativa e tradendo soprattutto fragilità emotiva e tanta rabbia. Pur comprendendo l’urlo coraggioso di sofferenza, così si rischia di cancellare un patrimonio di pensiero, di civiltà e di conoscenza faticosamente costruito in anni di battaglie politiche e culturali che hanno creato nel mondo le condizioni per restituire il primato alle “persone” indipendentemente dal colore della pelle, dal credo religioso, dalla fede politica, dall’appartenenza etnica, dall’orientamento sessuale. Un primato che pensavamo consolidato. Ne è riprova il fatto che questo intervento, abbassando il livello della discussione sia nel merito che nella forma, in un momento complicato per la vita del nostro Paese, ha evocato emotività e pietismi piuttosto che dibattito e riflessione, nell’indifferenza politica della sinistra italiana che ha definitivamente abdicato al suo ruolo sociale di promozione del progresso. Il PDL, affermando che è arrivato il tempo per il riconoscimento delle coppie omosessuali, attraverso il suo senatore Giancarlo Galan, ha dichiarato “… i gay devono essere cittadini come tutti, lo dice la Costituzione e le parole di Tancredi a la Repubblica me lo hanno ricordato e mi hanno commosso”. Proprio per questo presenterà un disegno di legge che prevede l’equiparazione al matrimonio per quanto riguarda diritti e doveri. In effetti, nonostante la paradossale contrarietà ideologica e moralistica di buona parte del PD, le richieste di riconoscimento giuridico da parte delle coppie omosessuali appaiono legittime sia sul piano culturale che giuridico.
Nell’articolo del 17 maggio 2013 su la Repubblica dal titolo Famiglie arcobaleno fra diritti e doveri, Chiara Saraceno, afferma che “… se il fondamento contemporaneo del matrimonio, nelle società occidentali sviluppate, è la scelta libera di due persone di mettere in atto un progetto di vita comune, basato sulla solidarietà reciproca e sull’affetto, non c’è nulla nella relazione omosessuale che sia in contrasto con questo fondamento… L’interdetto contro il matrimonio per le persone omosessuali poteva valere in un contesto in cui la coppia era insieme strumento di alleanze e di divisione del lavoro, in cui la funzione riproduttiva era importante, e perciò era anche importante che essa avvenisse entro garanzie chiare di consanguineità (anche se è sempre esistito lo strumento dell’adozione per correggere i fallimenti riproduttivi). Venute meno, o indebolite, quelle funzioni e quegli obiettivi, anche quell’interdetto perde, appunto, il proprio fondamento”.
Consapevoli di tali mutamenti culturali, molti Paesi nel mondo hanno regolamentato il tema e così oltre al riconoscimento giuridico delle coppie omosessuali hanno anche consentito loro l’adozione. Nel nostro Paese – penultimo tra quelli europei nella tutela e nel riconoscimento dei diritti agli omosessuali – l’unica voce, dopo la retorica ingannevole e mistificatoria della sinistra di governo su PACS e DICO di qualche anno fa, è stata quella della Corte Costituzionale che ha sollecitato più volte il Parlamento italiano a dare “… statuto giuridico al carattere di famiglia delle relazioni di coppia omosessuali, riconoscendone i diritti e i doveri derivanti”.
Eppure, nonostante la giurisprudenza, pervasive tensioni tradizionaliste ed una consolidata cultura politica conservatrice, che permeano ogni aspetto della società italiana, hanno impedito il mutamento del Paese in senso progressista: le manipolazionietiche della chiesa, le opportunistiche strategie politiche e la mistificante identità patriarcale della società italiana hanno ostacolato un adeguamento normativo alle esigenze nuove delle persone.
Come ha scritto Stefano Rodotà, nel suo saggio comparso nel novembre 2011 su www.italianieuropei.it dal titolo I diritti delle coppie di fatto, “Nonostante la Costituzione affermi chiaramente il diritto di tutti i cittadini all’eguaglianza e alla dignità sociale, in Italia il riconoscimento delle coppie omosessuali stenta ad affermarsi. È tempo di superare pregiudizi ideologici e fondamentalismi: per quanto imperfetta, la sentenza 138/10 della Corte costituzionale rappresenta un buon punto di partenza per ripensare la questione delle unioni civili … qui più che altrove si addensano preclusioni e pregiudizi, pretese etiche e indicazioni costituzionali. E lo spettro delle unioni omosessuali inquina la discussione … sciogliere questo nodo significherebbe avviare in via generale la soluzione del problema. È possibile, anzi obbligatorio, farlo, perché la linea costituzionale è ormai nitidamente tracciata”. La Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (proclamata la prima volta a Nizza nel 2000 ed entrata in vigore con il Trattato di Lisbona vincolante per le istituzioni europee e gli Stati membri) nasce proprio per “… rafforzare la tutela dei diritti fondamentali alla luce dell’evoluzione della società, del progresso sociale e degli sviluppi scientifici e tecnologici”. Due sono gli articoli che in questo caso meritano di essere ricordati: l’art. 9 secondo cui “Il diritto di sposarsi e il diritto di costituire una famiglia sono garantiti secondo le leggi nazionali che ne disciplinano l’esercizio” e l’art. 21 secondo cui “È vietata qualsiasi forma di discriminazione fondata, in particolare, sul sesso, la razza, il coloredella pelle o l’origine etnica o sociale, le caratteristiche genetiche, la lingua, la religione o le convinzionipersonali, le opinioni politiche o di qualsiasi altra natura, l’appartenenza ad una minoranza nazionale, ilpatrimonio, la nascita, gli handicap, l’età o le tendenze sessuali”. Questo significa che le persone sono tutte uguali e, come recita l’articolo 3 della Costituzione italiana, hanno pari dignità sociale. In questo senso, secondo Rodotà la “… dignità sociale, configurail principio che regola i rapporti tra le persone, il nostro essere nel mondo, il modo in cui lo sguardo altrui si posa su ciascuno di noi”. Quindi, continua Rodotà “… non si parla di un unico diritto di sposarsi e di costituire una famiglia, ma si riconoscono due diritti distinti, quello di sposarsi e quello di costituire una famiglia. La conclusione è evidente. Nel quadro costituzionale europeo, al quale l’Italia deve riferirsi, esistono ormai due categorie di unioni destinate a regolare i rapporti di vita tra le persone, che hanno analoga rilevanza giuridica, e dunque medesima dignità … e questo è un argomento che vale in primo luogo per contrastare le interpretazioni tendenti a ritenere che il legislatore italiano sia obbligato a restare rinserrato nel fortilizio del tradizionale istituto matrimoniale”. Parafrasando un articolo di Peter Singer dal titolo Homosexuality is not immoral, comparso il 16 ottobre 2006 su www.project-syndicate.org, il vero problema risiede nel primato indiscutibile che la classe politica italiana riconosce all’idea di una “società naturale” rispetto alla quale, dunque, “l’omosessualità è immorale”.
Il New York Times del 27 maggio 2013, con un articolo di Elisabetta Povoledo dal titolo Same-Sex CoupleSays, ‘I Do’ as Italy Sticks to ‘I Don’t’, definisce l’Italia come un paese controverso “… di cultura machista e omofobica …” in cui il legislatore, nonostante i recenti richiami al riconoscimento delle coppie omosessuali da parte della Presidente della Camera, Laura Boldrini, e della Ministra per le pari opportunità, Josefa Idem,resta inerme. Un bieco e meschino calcolo politico, dunque, nega il riconoscimento giuridico a circa 1 milione di coppie “ufficiali” (dati Istat, Arcigay e Linfa). Tutto questo mentre, secondo un sondaggio di Data monitor, diffuso da Huffingtonpost Italiaa gennaio 2013, la maggioranza degli italiani (54,1%) con un trend crescenterispetto all’anno precedente si è espressa a favore del matrimonio tra persone dello stesso sesso.
Tutto questo rappresenta un’ulteriore testimonianza della drammatica discrasia tra una società civile “autentica” che rivela vitalità, iniziativa e capacità di sperimentazione di forme nuove di solidarietà, ed una società politica gretta e bislacca che in poco meno di 70 anni ha sacrificato deliberatamente le persone (che nella volontà dei padri costituenti sarebbero dovute essere la ragion d’esistere della politica) sull’altare di una ragion di Stato di cui ancor’oggi, francamente, nessuno riesce a coglierne il senso.