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L'ONESTA' DEL MOLOCH (ovvero) Della beata nientitudine -25-

Da Nivangiosiovara @NivangioSiovara
mortali spiriti.spiriti liberi. Liberi finalmente
L'ONESTA' DEL MOLOCH (ovvero) Della beata nientitudine -25-Si risaliva sudati, oppressi, stanchi. La scala della torre d'osservazione era lunghissima, non finiva mai. Anche non soffrendo di claustrofobia si provava la sensazione di star per soffocare. Che soffocare era inevitabile, che per salvarsi si poteva solo allungare il passo, per guadagnarsi l'altezza finale, aperta, libera, ed allora la fatica aumentava, diminuiva l'ossigeno, quasi si sperava, si cercava di svenire, di restare là dentro, incoscienti. Non avevano pensato di lasciar posto neppure ad una singola finestrella del cavolo per tutta l'altezza della torre. Nemmeno uno spiraglio per respirare o, soprattutto, per rendersi conto di quale punto si era raggiunto: ormai fermi, esausti, non potevamo capire se ci avrebbe salvato salire ancora o ridiscendere, non si capiva il vicino e il lontano. Inoltre, una piccola feritoia almeno, ci avrebbe permesso di osservare la nebbia dissolversi gradualmente nel blu del cielo aperto, zavorrata alla terra, laggiù, abituando gli occhi al lento illuminarsi ed aprirsi dello spazio circostante, perché, così com'era, una volta giunto in cima anche un non agorafobico avrebbe tremato. Lassù, infatti, lo spazio si apriva così improvvisamente ed il contrasto con il lungo cunicolo era così violento che non si poteva non avere le vertigini. Ci si trovava immersi nell'immenso cielo senza barriere, con la sola vista del suolo lattiginoso. Era come quando sono nato. O come sarà quando nascerò, o nascerò ancora. Lo sguardo vagava impazzito nella luce, nell'infinito, e la vista non abbracciava nulla di ciò che l'osservatore  avrebbe potuto avere a portata di mano, esisteva solo il lontanissimo, come le immagini degli oggetti che non si possono avvicinare nei miei antichi pre-sonni, come nello stato dell'Ora. Immenso ed intangibile.Ecco, noi quattro risalimmo. Noi quattro a segnare i punti cardinali di quel vuoto, a dargli una misura, a suddividerne gli spazi. A spartirci l'immenso. Era quello un periodo in cui anche il tempo sembrava diviso -fratturato- per noi. Il nostro passato remoto, "orale", era rimasto sepolto nella preistoria, negli anfratti irraggiungibili delle menti dei nostri genitori, parenti, testimoni tutti di quell'epoca a noi divenuta ormai improvvisamente sconosciuta. E tutte le chiavi d'interpretazione di quegli alfabeti indecifrabili gettati aldilà di una barriera compatta di cui non conoscevamo neppure la collocazione, perduti, insomma, e basta. Il nostro presente era invece diviso fra noi, fruitori di quel nostro mondo così percettibile ed apparentemente reale e quel mondo, invece, dei nostri cari sepolti vivi, lontano, irraggiungibile. Tra noi ed il nostro futuro ora c'era tutto questo, fluido come un corso d'acqua gelido, proprio al centro del nostro presente, pronto a sgorgare lontano, fino ad un orizzonte intraguardabile. Noi ci giurammo che non avremmo mai voluto prender parte alla vita di nessun altro mondo. Non avremmo mai permesso di trovarci all'improvviso teletrasportati in quella terra dalla quale non si torna. E non avremmo mai voluto infliggere il dolore del nostro muto addio a quegli altri che ci amavano. Stringemmo il patto come i bambini, come nei film scadenti: con il sangue. Con il sangue, perché amavamo il colore, e volevamo riportarcelo nell'anima tornando alla nebbia. Dai, per farla breve, tanto avrete già capito: ci giurammo che non appena uno di noi avesse intrapreso quel viaggio senza ritorno, uno degli altri tre, sorteggiato, l'avrebbe fatto fuori. Ci giurammo che poi, fra i tre, ne avremmo sorteggiato uno fra i due rimasti. Che, rimasti in due, non ci sarebbe stato bisogno di sorteggio. Che l'ultimo si sarebbe arrangiato. Sarebbe partito, lui. Pazienza, addio, bye bye, au revoir.

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