Nel tempo in cui il cinema fu più popolare, tra gli anni ’20 e ’60 del Novecento, i nomi delle sale incisero in maniera importante sul successo delle proiezioni. A volte si limitavano a evocare la via o la piazza dove si trovavano, vedi il Po o il Vittorio Veneto a Torino; più spesso, però, costituivano il primo elemento di congiunzione tra la realtà e un mondo fatto di pura luce e celluloide. Già: il nome doveva propriamente evocare il senso di magnificente altrove che costituisce l'essenza più intima della settima arte. Doveva chiudere in un concetto facile quella dimensione che avrebbe reso impossibile resistere al richiamo di una promessa, materializzata nella rappresentazione di chissà quali visioni, chissà quali avventure.
Fu così che di epoca in epoca le sale si caratterizzarono per l’onomastica, la quale aveva un unico obiettivo: promettere il paradiso perduto. In Italia, il cinema conobbe la consacrazione sotto il fascismo e in quel periodo di autarchia lessicale si ricorse all’uso di termini latini, la cui semantica ridondante andava a coincidere con le necessità della propaganda. Sorsero i vari Excelsior, Arena, Astra, Lux (a Torino c’è ancora), gli Splendor (ricordati da Scola in un film bellissimo e struggente), i Paradiso (qui ci ha pensato Tornatore), i Fulgor (e un film sul cinema Fulgor di Rimini rimase un progetto mai realizzato di Fellini). Non mancavano i Dux (anche se poi, per ovvi motivi, se ne perse traccia), esistevano i Rex e gli Adua (fantasie coloniali). Insomma, la politica e la storia passarono anche attraverso l’onomastica di queste basiliche laiche e ludiche. Persino i cinema a luci rosse, negli anni ’70, seguirono un percorso già tracciato, cercando nel nome un’identificazione che li rendesse immediatamente riconoscibili. E fu così che - cito quelli torinesi - spuntarono l’Artisti Erotic Center, il Zeta Sexy Movie e l’Arco Pussycat.
I tempi sono cambiati. Oggi non c'è grande città che non abbia il suo Warner Village o un Multiplex Qualchecosa, a dimostrare che sulle sponde italiche sono passati i distributori americani con il loro carico di cocacola e popcorn. C'era una volta, e un'altra non ci fu più. Ma quella volta c’era. E c’era un pubblico formato da gente semplice che, almeno una notte nella vita, sognò sotto le stelle di un cielo Maestoso.
Magazine Cinema
Nel tempo in cui il cinema fu più popolare, tra gli anni ’20 e ’60 del Novecento, i nomi delle sale incisero in maniera importante sul successo delle proiezioni. A volte si limitavano a evocare la via o la piazza dove si trovavano, vedi il Po o il Vittorio Veneto a Torino; più spesso, però, costituivano il primo elemento di congiunzione tra la realtà e un mondo fatto di pura luce e celluloide. Già: il nome doveva propriamente evocare il senso di magnificente altrove che costituisce l'essenza più intima della settima arte. Doveva chiudere in un concetto facile quella dimensione che avrebbe reso impossibile resistere al richiamo di una promessa, materializzata nella rappresentazione di chissà quali visioni, chissà quali avventure.
Fu così che di epoca in epoca le sale si caratterizzarono per l’onomastica, la quale aveva un unico obiettivo: promettere il paradiso perduto. In Italia, il cinema conobbe la consacrazione sotto il fascismo e in quel periodo di autarchia lessicale si ricorse all’uso di termini latini, la cui semantica ridondante andava a coincidere con le necessità della propaganda. Sorsero i vari Excelsior, Arena, Astra, Lux (a Torino c’è ancora), gli Splendor (ricordati da Scola in un film bellissimo e struggente), i Paradiso (qui ci ha pensato Tornatore), i Fulgor (e un film sul cinema Fulgor di Rimini rimase un progetto mai realizzato di Fellini). Non mancavano i Dux (anche se poi, per ovvi motivi, se ne perse traccia), esistevano i Rex e gli Adua (fantasie coloniali). Insomma, la politica e la storia passarono anche attraverso l’onomastica di queste basiliche laiche e ludiche. Persino i cinema a luci rosse, negli anni ’70, seguirono un percorso già tracciato, cercando nel nome un’identificazione che li rendesse immediatamente riconoscibili. E fu così che - cito quelli torinesi - spuntarono l’Artisti Erotic Center, il Zeta Sexy Movie e l’Arco Pussycat.
I tempi sono cambiati. Oggi non c'è grande città che non abbia il suo Warner Village o un Multiplex Qualchecosa, a dimostrare che sulle sponde italiche sono passati i distributori americani con il loro carico di cocacola e popcorn. C'era una volta, e un'altra non ci fu più. Ma quella volta c’era. E c’era un pubblico formato da gente semplice che, almeno una notte nella vita, sognò sotto le stelle di un cielo Maestoso.
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