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L'ONU e il dramma dei"bambini -soldato" /L'infanzia rubata

Creato il 07 marzo 2012 da Marianna06

Secondo l'ultimo Rapporto ONU  del 2011 non esistono dati certi sul numero di bambini che in Africa e negli altri paesi in via di sviluppo vengono ogni giorno forzosamente arruolati.

Si calcola tuttavia che siano migliaia i minori, in almeno 15 Paesi, costretti  in armi a prestare ogni giorno servizio in bande criminali.

E questi, maschi o femmine, sono obbligati sovente a svolgere pericolosi lavori di spionaggio o addirittura a trasformarsi in schiavi sessuali.

Le bambine sono anche vivandiere e minacciate e costrette a fare fronte, con ogni tempo, al lavaggio della biancheria personale e delle divise dei capi.

 Dal Myanmar alla Colombia, dove se ne registrano 14mila, passando per Afghanistan, Ciad, Somalia, o Repubblica Centrafricana, è cosa nota che i piccoli vengano rapiti nelle famiglie, quasi sempre poverissime e ,sotto l'effetto di droghe e di minacce, commettano inaudite atrocità in conflitti alimentati ovviamente da interessi a loro del tutto estranei.

Per fare fronte a questa emergenza e cominciare a mettere la parola"fine" a questo abietto traffico di vite umane, 142 Paesi hanno ratificato un protocollo  delle Nazioni Unite sulla partecipazione di bambini -soldato in conflitti armati dell'ONU.

Servirà?

Noi ci auguriamo vivamente di sì. Anche se si tratta soltanto di un piccolo passo nella direzione giusta.

 Sappiamo, infatti, che regolamenti e pezzi di carta spesso lasciano il tempo che trovano nel caos di certe situazioni ingovernabili come lo sono le guerre.

 E le guerre, per giunta, in questo genere di contesti.

Secondo i dati ufficiali a disposizione, per la "Giornata Internazionale contro l'uso dei bambini-soldato", nel 2010 sono stati  liberati e reinseriti in Sudan, Repubblica Democratica del Congo e Myanmar ben 11mila tra  bambini e bambine.

Quando si parla di reinserimento non bisogna pensare ad un intervento  immediato ed agevole.

I traumi riportati da questi minori sono notevoli e non sempre, nel rientro a casa, c'è l'accettazione dei familiari e della comunità di provenienza.

E quasi sempre  poi manca per questi soggetti un adeguato supporto psicologico  a meno che non abbiano la fortuna d'imbattersi in organizzazioni umanitarie (e ce ne sono), laiche o confessionali , che sono in grado di prendersene cura, istruirli ed insegnare loro magari un mestiere.

Ma non è sempre che ciò si verifica.

 

   A cura di Marianna Micheluzzi (Ukundimana)

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