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“L’opera da tre soldi” di Brecht come vittoria del potere della musica. In scena a Roma al Teatro Sidecar. Piazzale degli Eroi 9

Creato il 22 gennaio 2015 da Taxi Drivers @TaxiDriversRoma

Questa messa in scena affronta la classica difficile sfida di proporre un testo famoso. In realtà non è tanto famoso il testo, non troppo rappresentato, quanto il titolo e le canzoni che, in quest’opera di cabaret, sono il supporto indispensabile per raccontare un’epoca, un pensiero e un mondo.  In realtà L’opera da tre soldi parte da lontano, cioè da The Beggar’s Opera di John Gay, di due secoli prima, che nelle mani di Brecht diventa un manifesto anti sistema ante litteram, in cui si afferma che il potere, in quanto espressione del governo borghese e capitalista, è sempre un’espressione criminale e ha bisogno di strutturarsi attorno all’illegalità se non direttamente alla malavita.

L’opera da tre soldi, rappresentata per la prima volta a Berlino nel 1928, è ambientata a Londra.

 Il modo di raccontare di Brecht non somiglia a quello di nessuno. I personaggi sembrano sputati dalla bocca di un grande cannone, come quelli delle fiere di fine secolo, dove l’eroe fa i conti con la spacconeria, con la paura, ma anche con la storia. Mackie è tutto questo. Ma lo sono anche tutti gli altri personaggi, che sono ugualmente protagonisti alla pari nella dignità. Ognuno principe della propria immagine di delinquente, prostituta, di funzionario corrotto, di madre alcolizzata o di un’angelica fanciulla che poi è pronta ad accollarsi, come le donne di mafia, l’attività dell’azienda di famiglia appena il suo uomo dovesse venire a mancare.

La piece si apre quindi come un vulcano che scoppiettando dà l’avvio a una serie di esplosioni successive di pensiero e di fantasia. Tutti sono presenti.  In questo caso più che mai il regista interpreta un’ipotetica proposta dell’autore. Anche noi siamo personaggi della storia e Brecht è un po’ come se fosse ancora in mezzo a noi. Il pubblico fa parte della mise en scene, e, data l’originale vestizione iniziale con costumi virtuali, diveniamo anche noi…una brigata di cialtroni.

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Come pietre espulse dal vulcano o dal cannone ogni figura è simile alle altre e nel contempo indipendente. Ciascuno racconta una storia, come un monologo solitario che man mano va ad aggregarsi a quello degli altri.  Il ritmo spezzettato e convulso, delle parole, dei temi trattati, degli incisi, delle allocuzioni, spezzato dalle mirabili arie delle canzoni, rende perfettamente l’idea di un universo speciale e unico; grandioso nel suo degrado, sublime nella dignità dell’essere tale.  Una serie di vite giustapposte che man mano compongono un grande affresco di miserie e nobiltà, di suggestive vicende dove la tragedia sfocia in vignette o in personaggi da fumetto, come suggerisce una delle interpreti, Mariangela Imbrenda.

Ciascuno dei personaggi creati da Brecht, e raccolti, come in un ready made dadaista, dal regista Massimiliano Caprara, è fortemente se stesso e collocato in un luogo di stampo anglo/tedesco, ma anche profondamente  italico. Anche se non si tratta di figure di giganti, ciascuno rappresenta una pietra miliare, archetipica di un mondo sempre attuale.  Come possiamo non trovare analogie con famigerati personaggi della nostra politica?

Da visionare a una a una le concrezioni calcaree dei personaggi nell’interpretazione dei protagonisti.

 Ci accoglie nel foyer il musico dalla fisarmonica affascinante e preziosa, sempre in scena a commentare la storia.  Si tratta di Carmine Ioanna, che ci dona l’incipit delle storie in un’improbabile lettura in tedesco, mentre l’intera brigata di ladri è interpretata da Gabriele Sisci nella figura di Mattia della Zecca. Un po’ il Virgilio della situazione, che guida gli ignari spettatori a percorrere più volte i gironi danteschi dei movimenti scenici ed è anche una sorta di mentore/emulatore dell’impareggiabile Mackie.

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Rutilante, nell’interpretazione di Veronica Milaneschi, la figura di Celia Peachum che apre virtualmente la commedia ed è la madre di Polly.  L’abilità di Veronica nel creare un indimenticabile personaggio e la sua capacità di disarticolare viso, corpo e voce, crea una fantastica immagine di maschera tragicomica, un meraviglioso personaggio di dama e di strega, grottesca e divertente nelle sue scene e controscene che non smettono di stupire.

Il collante del tutto è Gionata Geremia Peachum, il marito e padre di Polly, interpretato con elegante disincanto da Max Caprara che è anche il regista dell’opera.  Egli è proprietario della ditta «L’Amico del Mendicante» che lucra creativamente sui poveri. La sua immagine, a volte mimetica, di bonario cantastorie, contrappunta tutta la vicenda, dando voce a una sorta di borghesia popolare che non vuole accettare del tutto il contesto nel quale in realtà vive, come pure nel suo caso, la personalità delle sue due impareggiabili donne.

La figura di Mackie invece, interpretato da Michele Botrugno, un po’ malandrino, un po’ figlio di mammà, è una bella trasposizione del personaggio in chiave più tipicamente italiana. Con i suoi sguardi languidi e una dolcezza intrinseca che trasuda dal suo fare, perde la sua connotazione perversa, non sembra uno sciupafemmine e non può essere assolutamente la figura di un cattivo. Mackie Messer, infatti, dice di se stesso: “Che cosa può dire un gentiluomo? Non può dire nulla di più”.

La sua sposa Polly, interpretata con sagace ironia e anche con lirico e virgineo abbandono da Mariangela Imbrenda, è una meravigliosa incarnazione del perfait amour. Ella “Ama” indipendentemente da tutto, genitori contrari, marito infedele, ma mai troppo cattivo con lei. Le sue canzoni parlano però di una storia altra, che a volte contrappunta con il suo personaggio. Solo alla fine Polly sembra pronta a emanciparsi prendendo in mano gli affari di famiglia.  Ma rientra nel suo ruolo in tutti i sensi in occasione della soluzione finale positiva.  Una figurina naive in bilico tra farsa e tragedia, raccontata con grazia e intelligenza dalla Imbrenda che si rivela un’attrice a tuttondo.  Tra i personaggi più azzeccati c’è la figura del maggiore Brown, interpretato da Michele Bevilacqua.  Il poliziotto corrotto, ma più che altro amico del simpatico malandrino. Il suo volto, tutto il suo fare trasuda umorismo. In lui prevale la capacità di sdoppiare il personaggio in una serie di multipli ironici e divertenti, primo su tutti quello di una gustosa controscena in cui l’impeccabile e apparente gentiluomo si concede a una piccola performance da discoteca. Momento evidentemente esilarante, data la contraddizione tra il personaggio e le sue movenze.

Molto bene, e in parte, anche le due fanciulle che si dividono il cuore dell’amato bellimbusto.

Jenny delle Spelonche, interpretata da Francesca Romana Scartozzi, delicatamente maliziosa, che accetta tutto dal suo uomo.  Jenny non è certo un esempio di femminismo.  Ripete a tutti fino all’esaurimento quante e quali sono le malefatte di Mackie, ma lei non demorde, lo ama sempre e comunque, lo conosce, lo accetta, è quella che più gli somiglia.  Inquietante e a volte misteriosa questa Jenny delle Spelonche della Scartozzi; una figura sensuale, eppure talvolta distaccata.  Insieme a Mackie, il ladro e assassino rappresentano una coppia perfetta negli assunti e, nella prospettiva della cronaca contemporanea, sicuramente anche modernissima. Ma poi è lei a tradirlo, conclusione perfetta nella logica della loro vicenda.

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Lucy, la terza donna, figlia del capitano Brown e interpretata con saggia misura da Claudia D’Amico, è la classica gatta morta. Manifesta un apparente fascino calmo e un distacco elegante che si trasformerà però in furia terribile se provocata dalla gelosia. Bellissima la scena nella quale lei e Polly si trasformano, con una geniale scelta registica, nell’iconografia visiva più nota dei galli da combattimento, o delle gatte scatenate e soffianti. Il fermo immagine di qualche secondo operato sulla scena ne potenzia la divertente suggestione.

Questi e altri molteplici fili tirati dall’autore, o lanciati come ami allo spettatore, ne muovono le marionette virtuali e reali che compongono il microcosmo narrato nella storia.  Fili, a volte sottili, perfettamente raccolti dal regista, Max Caprara, che con un rispetto assoluto dell’opera originale e senza stravolgimenti intellettualistici, propone una trama e una messa in scena ai limiti dei generi. Non possiamo dire che è una tragedia, un romanzo criminale; come non è un giallo, o solo un cabaret. Forse è solo il racconto di un mondo che rispecchia le miserie umane e le nostre miserie, un mondo che nonostante il degrado dell’ambiente e delle vicende della vita privata di ciascuno, vive una sua logica di ironia che supera tutto. Ironia creata e vissuta dal vivo, anche mediante movimenti scenici di attori e spettatori, che, come in un teatro deputato medievale, seguono la vicenda, anche fisicamente, in ogni istante.

Da sottolineare la messa in atto di Brecht di una soluzione alternativa a quella che sarebbe la logica conseguenza del crimine, la tragedia è dunque solo sfiorata.  Ben rappresentato dunque in questa opera teatrale il concetto di salvezza: la salvezza che vince la povertà, la delinquenza, il degrado umano e ambientale. Una vittoria che non è scontata, ma che colpisce animi e coscienze, un risultato che trascende tempi e storia: la salvezza che opera su tutto è l’arte. In questo caso identificata dalla deliziosa, affascinante e inquietante musica di Kurt Weill e dalla comicità sottile e a volte impalpabile e dissacratoria di Bertold Brecht.

Alessandra Cesselon


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