L’ultimo numero della rivista LA CLESSIDRA, dedica una serie di saggi all’opera di Roberto Bertoldo. Testi di: Giancarlo Buzzi, Rinaldo Caddeo, Marco Conti, Alfredo De Palchi, Sara di Gianvito, Marco Ercolani, Gio Ferri, Mario Fresa, Lorenzo Gattoni, Stefano Guglielmin, Andrea Laiolo, Gianmario Lucini, Lelio Scanavini. Ecco il mio:
Roberto Bertoldo: VERITA’ E RIVOLTA
A partire da “Il calvario delle gru”1, la poesia di Roberto Bertoldo si è via via concentrata intorno al tema della bruciante necessità, già annunciato dagli strali lanciati contro la gazza, il poeta fasullo:
Lei mi parla di un silenzio
che io ho dovuto ingoiare
tra i frantumi delle parole
come un buco e le sue narici.
Lei parlando si condanna
a ferire il nulla che attesta2
Che cosa non deve fare un poeta? E a quale bestia umana dovrebbe assomigliare? A una blatta, per esempio: “Questo buco è una prova/che mi lega alla terra, consapevole.”3.
Del grande scandalo del cristianesimo, Bertoldo accoglie l’idea di una parola netta, crudele, come l’evidenza della crocifissione, di una caduta a perpendicolo sulla nuda pietra. “Volevi essere un uomo,/mordere nella ferita/e sei caduto come un arcangelo”4. Perchè il grido di Cristo sulla croce, è la bestemmia massima della dichiarazione di un abbandono, e questo è per Bertoldo, la poesia: “una forma di bestemmia, la più candida”.5
Contro l’insipienza degli angeli incapaci di capire, né “il significato/della passiflora né il profumo/che l’adagia sulle bestemmie”6, Bertoldo contrappone la parola levigata allo stato dei cadaveri trascendentali: noi stessi. Questo per buttare fuori i mercanti dal tempio e preservarlo dalle parole dei sedicenti poeti: “Le vostre divine parole sono da rotocalco,/le mie,così blasfeme e plebee,/le affiggo sulle porte delle cattedrali”7.
La parola corteggia la carne, si incarna nella necessità della Storia. La poesia è verità e rivolta.
Esiste, dunque, una sostanziale unità drammatica nell’opera di Bertoldo, quasi un manifesto inciso a lettere di fuoco, squadernato senza timore davanti a tutti i potenti, ai saccenti e alla stupidità.
Una specie di bile ustionante attraversa i suoi libri, e nemmeno l’amore si salva; l’amore, il luogo più pericoloso per la poesia …
Voi, uomini mediocri, che rubate
i miei versi cantati a calce,
indubbiamente voi siete la storia
e incutete la miseria sulle porte
(…)
Fate della pena vostra l’inganno
che penetra con le sue dita disciolte
nella bottega dei miei occhi,
orsù padroni delle pieghe,
ci sono nate addosso le credenziali.
L’incipit dell’ultimo libro8 conferma dunque una conclusione banale e inquietante: e cioè che la Storia non è il luogo della verità ma dell’inganno e del mercimonio. Eppure questa miseria è necessaria alla carta, alle pene dei poeti che cantano.
Senza questa pena, la lingua non potrebbe dire che l’architettura della Convenzione, conformarsi al beato belare e al lamento. La lingua della poesia rinuncia a pronunciare l’invisibile e si mette a scrivere di guerra, la guerra che è già qui, “senza scomodare inferni“9 decapitando le metafore; perché “questo è il martirio del poeta”10.
Ecco il quadro introduttivo, chiarissimo, l’unico tema portante, il martello percussivo dell’opera, insomma, intorno al quale Bertoldo esercita la retorica della lingua, posseduto da una specie di pathos frontale, come a volersi mettere alle spalle le lingue del secolo difficile e ripartire “nel solco delle lacrime”11; ma anche dalle scene di devastazione delle grandi guerre, dai segni primitivi di sventura; per esempio “i corvi che azzannavano le pianure”12.
Il paesaggio che descrive, anche se contemporaneo, è probabilmente lo stesso conosciuto da Quasimodo al termine della seconda guerra mondiale, col problema di dover decapitare le metafore in nome di uno sguardo frontale sulle cose, capace di far irrompere nella lingua, la verità delle Erinni, senza l’inganno di una pacificazione a tutti i costi o di un abbassamento della crudeltà.
Così come i morti gonfi, l’ululato delle madri, ancora oggi è possibile dire: “Abbiamo visto i nostri bambini/aperti come zolle/e avevano vermi bastardi anche loro”9.
La parola deflagrata, insomma, è sempre moderna e contemporanea, si nutre degli scarti e delle devastazioni, ricostruisce, come tanta arte povera, poveri e potenti oggetti di parole, corpi sghembi esposti sul piedistallo come i resti avanzati dalle autopsie. Mostra, sfacciatamente, l’orribile bellezza, il brancolare, l’equilibrio precario dei pezzi.
Questa è la funzione, probabilmente, di metafore atte a superare, decostruire, spingere, asserire, esortare: “La sfida è nelle sillabe del muscolo”10; “Abbiamo inferto colpi a queste poesie”11; “Le mani di un poeta pestano la carta”12; “Noi aggrediamo la divisa”13, e si potrebbe continuare a lungo.
E’, insomma, l’urgenza della parola a farsi musa di se stessa e questo accade quando il divario tra vita e letteratura si fa insostenibile.
Ma una poesia che voglia uscire totalmente dal suo corpo, sa di giocare una partita difficile in quanto è consapevole che occorre inventarsi un modo per appropriarsi delle forme naturali, farle deflagrare nelle stanze buone della letteratura; non nell’aspetto di una dichiarata poesie civile, ma in quello di un abbruttimento, di uno sberleffio, di una rinuncia alla memoria, alla mania di ricordare.
Così la poesia di Bertoldo si infligge dei colpi mortali; scoppia in immagini/spari, talmente violente da subire combustione immediata. Esercita la vocazione al grido, come a voler smuovere l’enorme montagna dell’indifferenza delle parole comuni, incapace di capire quanto soffre un poeta; l’urgenza di essere utile, di dichiarare senza mezzi termini, che la corsa e il dissanguamento della forma verso la perfezione non ci salverà, non salverà nessuno, nemmeno la stessa poesia come genere.
Nel vasto inventario di segni naturali che Bertoldo espone davanti agli occhi di un lettore di poesia sempre più distratto, emergono le forze primordiali, il loro potenziale potere distruttivo contro l’artificiosità dei segni: “Il sole ci percuote/con la sua testa mozza”;14 “L’arte/ ribella la campagna”;15 “E domina la neve su queste braccia che amano”16; ”Il vento oggi scuote le nostre passioni”17; ”Cedo alla luna e allo statuto di dio”18.
Ma la parola, allorché cerchi forma e nome, non può che venire dal sentore del dono, dalla forza primitiva che invade le spighe fino allo scoppio del grano. La parola, insomma, rinuncia ai modelli e ai maestri, sfugge al timore e alla riverenza e cerca le madri nell’intuito del primo sentire. E’ “l’esplodere delle vocali/contro la reticenza dei pensieri”19. Vitalismo; innesto nel grande corpo delle radici naturali da cui la parola magica ha attinto per dichiarare, la prima volta, il rischio del distacco, della maschera, del nascondimento e della falsità.
Per poter errare bisogna essere assolutamente moderni. Sconsiderati, insomma. Bisogna avvertire il rischio dell’afasia della lingua per poter arginare la vasta capacità distruttrice delle convenzioni. La lingua della poesia è, essa stessa, organismo ad orologeria dentro il grande baraccone della lingua/comunicazione. Le immagini della poesia di Bertoldo, sono petardi fatti scoppiare non solo nella lingua/convenzione, ma anche sotto le poltrone dei salotti letterari buoni e meno buoni, sotto gli altari dei riti autocelebranti delle conventicole poetiche, contro le manie di redattori di canoni, o quelle, altrettanto pericolose, di chi pensa che ormai l’arte si sia ridotta a puro gesto, senza tecnica e senza metodo.
Insomma, per permettersi di far scoppiare le bombe della forma, bisogna avere la capacità di guardare in faccia l’orrore, trattenere le schegge inumane e potenti e farne altra luce.
Questo sguardo altro può portare a una forma di maledettismo di turno, certo, rispetto alla quale l’astuta modernità ha già sperimentato uno dei suoi antidoti più efficaci: l’indifferenza. Ma che importa al poeta? Lui sa che la poesia non cambierà il mondo, e neanche noi stessi. La poesia si mostra, si fa guardare, scosta il sipario dell’apparenza sociale e ci mette davanti allo specchio. Questo è il suo compito. Il compito di specchiarci è il nostro. Come è nostro, in questo libro, il compito di rinunciare all’esegesi, di saper cogliere, piuttosto, l’amarezza, la torsione, la sbavatura che sentiamo inferta alle parole; l’urlo, persino la reiterazione, - quasi un atto di appello finale – dell’insulto contro gli uomini a vanvera, compresi noi stessi, che cerchiamo un inutile bottino.
Per favore, non applaudite!
O non siete sinceri
o non avete sofferto abbastanza.
Queste poesie spezzano la chioma
penitente, sono della fragile puttana
la nequizia – gli avamposti li hanno sconclusionati
le belle di giorno al salnitro,
i vizi sono la campana delle chiaviche
e oggi che ho versificato il raccolto
il mio vino si è fatto di inchiostri/
lasciate plasmarvi l’irrisolto
compagni delle abluzioni!20
Sebastiano Aglieco
1 Il calvario delle gru, La Vita Felice 2000
2 Ibidem, p.11
3 Ibidem p.71
4 L’archivio delle bestemmie, Mimesis 2006
5 Ibidem
6 Ibidem
7 Ibidem
8 Pergamena dei ribelli, Joker 2011
9 Ibidem, p.9
10 Ibidem, p.9
11 Ibidem, p.10
12 Ibidem, p.14
9 Ibidem p.17
10 Ibidem, p.19
11 Ibidem, p.20
12 Ibidem, p. 20
13 Ibidem, p.21
14 Ibidem, p.22
15 Ibidem p.23
16 Ibidem, p.24
17 Ibidem, p.25
18 Ibidem p.40
19 Ibidem p.23
20 Ibidem p.74