di Matteo Zola
La guerra in Libia, come spiegato in un precedente articolo, è il risultato di uno schema reiterato e reiterabile. L’atteggiamento dell’opinione pubblica di fronte a fatti del genere è sovente duplice: da un lato troviamo quello che fa riferimento al liberalismo umanitario in modo più o meno consapevole. Dall’altro quello del cinico realismo, talvolta simile all’indifferenza, che si misura con l’impossibilità di cambiare le cose.
Il liberalismo umanitario
Il liberalismo pone al centro del suo pensiero l’individuo e la sua libertà potenziale. Si avallano dunque tutti quei conflitti che servono a liberare un popolo (in quanto estensione dell’individuo) da un giogo totalitario oppure si appoggiano (moralmente o praticamente) le ormai note “autodeterminazioni“ – sulle pieghe di tale concetto rimando a L’autodeterminazione dei popoli. Il caso ceceno di Gianmaria Sisti, EastJournal giugno 2011.
L’umanitarismo come strumento di guerra
Il liberalismo umanitario porta con sé evidenti storture. Le strategie belliche contemporanee prevedono un uso strumentale delle tragedie umanitarie. Scrive Luca Rastello, giornalista di La Repubblica, in un breve saggio del 1999: “La guerra in Bosnia l’ha dimostrato: i civili non un incidente di percorso ma l’obiettivo della guerra. Gli spostamenti di popolazione sono spostamenti di massa, biblici, deportazioni, stermini; sono obiettivi della guerra, non danni collaterali. Oggi le masse di profughi sono usate da tutte e due le parti. Attenzione: da tutte e due le parti – come armi e come strumenti di manovra”. Strumenti anche per la costruzione del consenso. Strumenti per minacciare uno Stato terzo, o per indurne l’intervento armato, per convincere della bontà della propria causa, per far lacrimare le star di Hollywood, per legittimare bombardamenti.
Umanitarismo e guerra giusta
La vocazione umanitaria del liberalismo bellico si legittima nel concetto di bellum iustum, di guerra giusta. Giusta poiché rispondente tanto alla giustizia codificata dai trattati internazionali, quanto alla morale comune del tempo. L’umanitarismo ha avuto nell’esportazione di democrazia la sua più recente manifestazione. E l’opinione pubblica è sempre stata consenziente poiché quella guerra rispondeva all’imperativo morale dell’epoca, al “sentimento” collettivo.
Un corto circuito morale
L’opinione pubblica, però, cambia rapidamente sentimento. L’indignazione nei confronti di una guerra o di un dittatore sanguinario, di cui a gran voce si chiede la testa, diventa presto indignazione per l’ingerenza delle potenze “straniere” in un conflitto interno, come nel caso libico, finendo per idealizzare il tiranno vittima dell’ingerenza democratica e della sete di petrolio.
Si entra così in un corto circuito morale (sostenere il diritto del tiranno a tiranneggiare liberamente a casa sua) che a nulla serve nell’ambito della lettura delle relazioni internazionali ma che è assai utile ai politicanti, agli imbonitori televisivi, ai produttori di armi da fuoco. Se oggi il concetto di “guerra giusta” è sempre più criticato si deve allo scarto tra sentimento pubblico e prassi politica – che resta ancorata all’ottimismo democratico dei primi anni Novanta. La sensibilità di oggi non si incanta più davanti alle guerre cosiddette umanitarie, ha bisogno di più raffinati meccanismi di persuasione.
Il realismo politico
Il contrario dell’umanitarismo è il realismo. Questo non necessita di adesioni morali, né di meccanismi di persuasione. Nella sua aridità sentimentale, esso resiste al mutamento del sentimento pubblico. Il realismo politico, da Machiavelli, Guicciardini, Hobbes e Carl Schmitt, non versa lacrime, non ha rimpianti, non nutre illusioni e non coltiva speranze. Analizza il comportamento degli Stati che non sono né buoni né cattivi, non perseguono la virtù ma l’egemonia, non si conformano alle tavole della legge morale ma alle dure regole della sopravvivenza.
Il comportamento di uno Stato non cambia con i governi
Al comportamento degli Stati occorre dunque guardare. Un comportamento che non muta con il mutare delle classi politiche e dei governi ma è determinato da logiche proprie legate alla necessità di potenza, alla conservazione, alla geografia politica. Gli Stati Uniti del premio Nobel per la Pace, Barack Obama, non sono differenti dagli Stati uniti di George W. Bush. L’Italia di Berlusconi non è stata diversa da quella di Mussolini e Giolitti. Inutili quindi le manifestazioni per la pace nel mondo, benché lodevoli.
L’utopia del pacifismo
Il pacifismo, in quanto negazione del realismo politico, è una possibilità storica che si fa prefiguratrice di futuro ma è inadatta alla lettura del presente. In questo senso il pacifismo è utopico. Lo è quello religioso, che vede la pace universale come realizzazione della fratellanza in Dio, e lo è quello laico in quanto analfabeta del presente. Un presente fatto di conflitti a cui il pacifismo non sa parlare.
Le guerre del secolo saranno civili
Per concludere sottolineo come il mutamento progressivo delle relazioni internazionali, sempre più improntate alla redazione di trattati che legano economicamente le potenze le une alle altre, porti a una progressiva modificazione dei conflitti. Le guerre tra Stati, combattute con eserciti regolari, sono un ricordo del Novecento. Se si escludono le guerre d’invasione, in cui un esercito regolare ne fronteggia uno informale, i conflitti di questo secolo saranno guerre civili. Le parti in causa, armate da finanziatori occulti legati alle grandi potenze, sono e saranno milizie (lealiste, partigiane, etniche, indipendentiste) destinate a mutare gli assetti geopolitici della zona di combattimento. La ex-Jugoslavia, il Congo, il Sudan, il Caucaso, la Libia e forse prossimamente la Corea del Nord ne sono esempi.
Ecco allora che l’articolo citato in principio, a cui rimandiamo, diventa utile viatico per comprendere come la tecnica del colpo di Stato sia travasata nella tecnica di costruzione della guerra civile poiché quest’ultima, capace di contagiare anche Paesi vicini, è più utile e meno onerosa al mutamento politico in larga scala di una determinata area d’interesse.