Magazine Diario personale

L'ora del corpo spaccato

Da Margherita

Ho l'impressione che spesso gli sconosciuti, nell'arco di insignificanti e volatili frazioni di secondo, mi soppesino e si dicano che cammino molto velocemente.
"Dove avrà mai da andare così di fretta?". Lo sguardo è quello.

A Manhattan camminai con eccessiva lentezza per settimane. Dovetti acquisire nuovi ritmi, uno stile più deciso e lineare, onde amalgamarmi con le ondate di persone che si spostavano a piedi.
Nel corso dei mesi successivi al mio rientro in Italia so di aver rallentato poco per volta, ma resto visibilmente più rapida rispetto al passo medio dei chi osservo per strada.

A Manhattan mutai forma. Il contesto modellò il mio corpo con una rapidità che credevo impensabile. Oltre ad adattare il passo a ritmi nuovi, scoprii cosa si prova a passare del tutto inosservati. Per diverso tempo mi sentii più leggera, libera dal peso dell'occhiate curiose e talvolta moleste cui ero abituata nel prezioso nord-est italico. Verso la fine della mia permanenza negli Stati Uniti, invece, mi resi conto che mi mancavano le sensazioni di fuggente parentela spirituale tipicamente riscontrabili nel momento in cui due outsider di provincia si riconoscono.

A Manhattan scoprii la prolungata e assoluta mancanza di contatto fisico con altre persone. Realizzai quanto l'isolamento mi stesse destabilizzando solo nel pomeriggio in cui un uomo ed ci urtammo per sbaglio. Egli stava per scendere i gradini della fermata della metro più vicina al condominio in cui vivevo. Io mi stavo recando a lezione. Nell'instante in cui avvenne il contatto non provai alcun fastidio. Eppure ero abituata a provare fastidio. Ognuno di noi è abituato a provare fastidio in quelle occasioni. Invece io mi accorsi di quanto mi mancavano la consistenza, gli odori e il calore della carne viva.

Da allora credo di aver consolidato alcuni elementi emergenti nel mio modo di scrivere nei mesi precedenti alla partenza per gli Stati Uniti.
Chi l'ha inteso ha definito il mio stile "viscerale". Io ho cominciato a chiamarlo "corporeo".

Non è tanto l'inevitabile fatica, quanto il far sì che le parole siano filtrate dalla materialità delle sensazioni che provo nel tentativo di esprimere ed articolare le immagini che ho dentro.

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Nel documentario della HBO "God is the Bigger Elvis" c'è una scena in cui una suora spiega che all'interno della sua congregazione viene riconosciuto il fatto che il canto è una pratica corporea che interseca la sfera della sessualità, poiché essa è grande fonte di piacere intellettuale e fisico.

Credo che la chiave sia l'abbandono.

Avere le spalle coperte.
Sapere ciò che si sta facendo.
Un spazio protetto.
Fiducia.

Quando riesco a scrivere con abbandono, sono così presente da sentirmi come se ogni frase fosse il prodotto del mio personale vissuto corporeo, indipendentemente che ciò sia vero o meno. Una rivisitazione. Eppure mi pare anche di scomparire, di essere cancellata dal processo.

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A Manhattan cominciai a registrare il modo in cui, nel sonno, mi scrivevo il corpo.
Da sveglia mi strappavo di continuo le unghie per il nervosismo e l'eccesso di caffé in corpo. La notte mi graffiavo la schiena, le spalle, il petto e il costato.
Quando me ne accorgevo, il primo impulso era quello di compatirmi, di dirmi che mi stavo logorando. Poi facevo conti alla rovescia, mi imponevo di resistere.

Una notte mi graffiai con particolare violenza. Passai giorni a contemplare il dolore che mi ero arrecata senza svegliarmi, e ora ho una cicatrice che me lo ricorda.

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Mi piace l'idea di essere in grado di suscitare certe sensazioni fisiche ed emotive nelle persone che mi leggono. So che, con un minimo di sforzo, potrei torturare e piegare i corpi di un certo numero di esseri umani, stando pressoché immobile e muta. Mi è già capitato di farlo.
Amo costruire missive - non di rado autolesioniste - in cui rivelo troppo dei miei stati interiori, ma nelle quali impianto brevi sequenze di parole volte a scatenare vibrazioni molto precise in chi mi legge.

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Scrivere di corpi. Di corpi altrui.
Scrivere su corpi altrui.

Per un po' mi sono detta che c'erano limiti oltre i quali non mi è dato scrivere, ma poi ho realizzato che non è davvero così. Ci sono corpi sui quali ho scritto per lunghi periodi, fino al raggiungimento di una forte familiarità e una vicinanza nello stile.
L'incontro con altri corpi, per quanto fugace, può marchiare a tal punto da palesarsi e tradursi in innovazioni impreviste. Ad esempio, il momento in cui ho contemplato la suggestione del modo di baciare di una persona che aveva baciato chi stavo baciando io, e il cui stile mi era stato noto fino all'ultimo dettaglio.

In altre occasioni, la comunicazione epistolare come fonte di follia. "Mi fai impazzire".
Oppure, nel caso in cui l'obiettivo sia in primo luogo il temporaneo annichilimento in compagnia di persone similmente intenzionate, la comunicazione epistolare come potenziale scaturigine di disastri. "Poter scrivere senza usare parole".

Abbandono.
Avere le spalle coperte.
Sapere ciò che si sta facendo.
Un spazio protetto.
Fiducia.


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Ho paura che la tristezza che sto provando da qualche tempo a questa parte sia fin troppo simile a quella che mi fu compagna lo scorso anno, prima che crollassi.
Mi chiedo di continuo dove stia il senso in quello che faccio. E dato che buona parte di ciò che mi impegna, a conti fatti, è un tentativo di comunicare, di sovente mi dico che potrei risparmiarmi questa fatica. Ma non c'è molto altro che sappia fare. Non c'è altro che mi dia la forza per resistere sapendo di poter contare solo su me stessa.

So di essere così vulnerabile alle osservazioni altrui solo perché ora mi pare che ogni altra cosa sia instabile e a rischio di crollo, ma non c'è nulla che possa farci, almeno per il momento.
Mi limito a reagire a chi mi chiama gratuitamente "stronza" decidendo che quelle persone non meritano di stare in mia presenza.
Quando vengo a sapere che c'è chi deride o insulta la mia essenza basandosi su alcune delle cose che scrivo, mi limito ad accumulare nuovi dati sullo stato del mio isolamento.

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La mia capacità di esprimermi a parole era venuta meno. Solo sms stringati.
Non avevo alcun desiderio di emettere suoni di senso compiuto, o di rendermi agilmente leggibile.
Dovendo scegliere tra desolazione assoluta e qualcosa d'altro, scelsi la seconda opzione.
Le strade deserte, la pioggia sulle lenti dei miei occhiali, la vecchia bici da corsa di mio nonno.
L'affidarsi fiducioso alle mani di chi può farti male solo fino ad un certo punto.

L'eterna discussione con chi, dall'alto della propria purezza, mi dice che non vede senso nel lasciare tracce su corpi di persone con le quali non esistono prospettive di relazioni durature.
E io, dall'alto del mio spirito frantumato, del mio corpo martoriato dalla solitudine, rispondo con furore che ho bisogno di essere toccata per non impazzire.
Toccata con comprensione. Scritta.
Quando la parola viene meno, una comunicazione epistolare muta.

Mi affidai fiduciosa alle mani di chi può farmi male solo fino ad un certo punto.
Ero sfinita, svuotata da oggi desiderio di apparire conciliante, lieta e aperta a compromessi.

Completamente presente, lasciavo tracce, seminavo futuri ricordi. Scomparivo nel processo.


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