Licia Satirico per il Simplicissimus
È tempo di sentenze storiche per la tutela dei lavoratori, per i diritti negati, per le prevaricazioni intollerabili. Pochi mesi fa la dura sentenza sulla vicenda Thyssen, il cui amministratore delegato è stato accolto dagli applausi scroscianti di Confindustria. Pochi giorni fa la pronuncia del tribunale di Torino sul caso Eternit ci ha messi di fronte alla morte per amianto di 2091 persone, condannando due anziani miliardari (uno dei quali novantenne) a una pena che non sconteranno mai. Adesso una pronuncia piccola piccola potrebbe segnare il canto del cigno dello Statuto dei lavoratori.
Accogliendo il ricorso presentato dalla Fiom, la Corte d’Appello di Potenza ha ordinato alla Fiat di reintegrare nello stabilimento di Melfi tre operai accusati di aver ostacolato il percorso di un carrello robotizzato durante un corteo interno. Secondo l’azienda automobilistica, il blocco avrebbe impedito ai dissidenti di lavorare regolarmente alla produzione della Fiat Punto (medio)Evo. La Fiat ricorrerà in Cassazione contro l’ennesima condanna per repressione della condotta antisindacale, ma i tre operai sono già stati accolti dai loro colleghi con un lungo applauso molto diverso da quello riservato da Confindustria all’amministratore della Thyssen. Maurizio Landini commenta la notizia come la conferma del ruolo indispensabile svolto dallo Statuto dei lavoratori nella tutela della dignità del lavoro.
I casi Thyssen, Eternit e Fiat hanno in comune la fortissima contrapposizione tra le parti sociali in causa, mediata da un intervento della magistratura considerato – a torto o a ragione – troppo lento. Certo, la mancata predisposizione di cautele contro gli infortuni sul lavoro e i licenziamenti illegittimi sono cose molto diverse: la giustizia è arrancante in entrambi i casi, spesso beffarda e tardiva. Ma ha un senso di pacificazione sociale nella misura in cui accerti verità intollerabili e ripristini i diritti negati.
La durata dei processi è uno dei pretesti con cui l’articolo 18 è stato più spesso attaccato nelle ultime settimane, come se i tempi giudiziari di riconoscimento di un diritto potessero pregiudicarne l’esistenza. Come se il tempo rendesse farraginoso, antieconomico, obsoleto l’annullamento di un licenziamento senza giusta causa. Questo è il messaggio che si lascia trapelare quando si definisce l’articolo 18 “santuario del no”, “totem” da superare, “alibi” per difendere ladri e fannulloni, “pallone ideologico” la cui intangibilità può compromettere il dibattito sulla riforma del mercato del lavoro. Un operaio della Fiat di Melfi non è affatto un “fannullone”, per citare l’elegante Marcegaglia: si sottopone a turni massacranti per uno stipendio che non supera i 1200 euro mensili, tra lo spettro della cassa integrazione e l’ombra di una politica d’impresa che considera un peso gli stabilimenti italiani ma non riesce a decollare nemmeno all’estero. Eppure le sue condizioni possono ulteriormente peggiorare grazie a una politica del lavoro che, in nome della crescita del Paese, precarizzi le garanzie rendendo impossibile, tra le altre cose, il traguardo della già martoriata pensione. Dopo l’articolo 18 il nuovo capro espiatorio sociale potrebbe essere l’articolo 28 (perché i sindacati non hanno più senso dove non esistono i diritti), e così via fino a eliminare antipatici limiti giuridici alla libertà di licenziare.
Oggi Bersani si è rivelato inaspettatamente ottimista sulla possibilità che si trovi un’intesa sul mercato del lavoro. La dichiarazione giunge, sublime, dopo le parole di Elsa Fornero, che ieri ha annunciato al Pd che la riforma si farà anche senza Pd. Vero è che pure le primarie del Pd si fanno senza Pd, ma la sensazione di sconforto non muta: si parlano linguaggi diversi in una parodia compulsiva di democrazia che va avanti inesorabile. Se il prezzo della salvezza è la rinuncia alle tutele in nome di magnifiche sorti e recessive, ebbene non vogliamo essere salvati.