Formatisi in un lungo percorso di trasformazione durato circa tre secoli, dal 700 al 1000 d.C., conseguenza del progressivo indebolirsi dei rapporti dell’isola con Bisanzio, causato dall’espansione inarrestabile degli arabi nel Mediterraneo, i Giudicati sardi apparvero sulla ribalta della storia nel corso dell’XI secolo, all’indomani dell’estenuante lotta, intrapresa dall’alleanza tra essi e le Repubbliche Marinare di Pisa e Genova contro i tentativi di invasione di Mujahid al-Amiri (italianizzato in Museto, Musetto o Muscetto), schiavo affrancato di origine slava, divenuto governatore di Denia e delle Baleari grazie alle sue straordinarie doti militari, politiche e intellettuali. Mujahid era riuscito a instaurare dei presidi stabili lungo la costa settentrionale dell’isola, tra Alghero e Olbia, e da qui aveva comandato spedizioni veloci e improvvise a Luni e a Pisa, approfittando del temporaneo impegno delle truppe pisane nel sud Italia per fronteggiare altri pirati arabi. Coordinati dal Papa, sardi, pisani e genovesi si coalizzarono per scacciare Mujahid dalle basi sarde. Si aprì una guerra destinata a durare per quasi trent’anni, con il condottiero arabo costretto a indietreggiare, ma sempre pronto a riorganizzarsi e a rifarsi minaccioso. Solo con la morte dell’ormai ultraottantenne Mujahid (pare per mano di un soldato sardo) nella spedizione degli alleati contro la roccaforte algerina di Bona (Ippona) nel 1044, il Tirreno fu definitivamente liberato dalle incursioni saracene.
Ristabilita la tranquillità del mare, la Sardegna fu interessata dall’espansione commerciale delle due Repubbliche Marinare e dalla volontà del papato di portare la chiesa sarda, fossilizzata sul rito bizantino, nell’orbita di Roma, in un periodo di forte tensione tra latini e greci, sfociato nello scisma del 1054. Mercanti e monaci diedero l’impulso alla ripresa dell’utilizzo della scrittura, necessaria per le operazioni mercantili, ma soprattutto utilizzata dai monaci per redigere i Condaghes, termine greco-bizantino con cui si indicano i registri delle attività dei monasteri. Questi registri, oltre che come fonte diretta di notizie, sono importanti anche perchè la lingua utilizzata è un latino volgare che si va trasformando in sardo, tanto da potersene considerare le più antiche testimonianze scritte. L’esempio dei condaghes fu seguito anche all’interno delle corti giudicali, facendo aumentare esponenzialmente le notizie sulle vicende storiche e sull’organizzazione della vita quotidiana di quei tempi. Affiorarono così regnanti dai nomi esotici (Torchitorio, Barisone, Orzocco), contrasti tra giudicati, traffici (non solo mercantili) pisani e genovesi, ma soprattutto un’organizzazione politica e amministrativa capace di sbalordire, se confrontata con le coeve esperienze statuali europee e mediterranee.
A capo del Giudicato (Logu o Rennu) c’era il Giudice, con le stesse prerogative di un re (Iudex sive rex), eletto in discendenza ereditaria per linea maschile (raramente femminile, più comune la reggenza per conto di un erede maschio in minore età). Ma non era un sovrano assoluto: la sua politica era sottoposta al vaglio di un parlamento (Corona de Logu), composto dai maggiorenti (majorales) del Giudicato, da membri della gerarchia ecclesiastica e da rappresentanti del territorio. La Corona de Logu investiva formalmente l’erede designato in un’assemblea, detta Collectu. Il Giudice regnava sostenuto da un patto col popolo (bannus consensus), venuto meno il quale al popolo era riconosciuto il diritto alla detronizzazione ed al tirannicidio. Il suo patrimonio personale era distinto dal patrimonio del regno, per il quale il Giudice aveva il potere esclusivo di amministrazione, con il consenso della Corona de Logu. Nella sua attività, il Giudice era coadiuvato da un Cancelliere appartenente alla gerarchia ecclesiastica e da funzionari detti Majores, il più importante dei quali era il Majore de Camera.
Ma è nell’amministrazione locale che l’organizzazione giudicale ha mostrato i suoi aspetti più sorprendenti. Il Regno era diviso in distretti amministrativi, detti Curatorìe (Curadorìas), variabili nei confini in modo che la popolazione di ogni distretto fosse grossomodo equivalente. Il governo delle Curatorie era esercitato dalla Corona de Curadoria, a capo della quale stava il Curatore. Gli uomini liberi di ogni Curatorìa eleggevano un proprio rappresentante da inviare alla Corona de Logu. Il Curatore nominava, previo consenso della relativa assemblea curatoriale, i funzionari locali: il Majore de Bidda (villaggio), una sorta di sindaco dei centri più popolosi del territorio, che aveva anche il compito di amministrare la giustizia; il Majore de Scolca, a capo di una guardia (Scolca), archetipo della tradizionale istituzione delle Compagnie Barraccellari, ancora esistenti in Sardegna, con il compito di salvaguardare le zone rurali; il Majore de Armentos, preposto al controllo dell’allevamento e della pastorizia. Nel periodo giudicale si contavano quasi mille villaggi e sessanta curatorìe in tutta l’isola, queste ultime in buona parte corrispondenti alla tradizionali sub regioni storiche della Sardegna.
Secondo il padre dell’archeologia nuragica Giovanni Lilliu le curatorìe erano modellate sulla falsariga degli antichi cantoni nuragici, i territori che facevano capo alle regge nuragiche. Indubbiamente, nell’organizzazione amministrativa giudicale sono presenti elementi ereditati da tutte le fasi della civiltà sarda succedutesi dal periodo nuragico a quello bizantino, comprese le consuetudini e le tradizioni popolari, unitamente a influenze delle contemporanee burocrazie imperiale e papale. Ciò che risulta del tutto assente nell’organizzazione giudicale è l’elemento feudale, predominante nell’Europa contemporanea e introdotto in Sardegna solo dopo la definitiva conquista Catalano-Aragonese. La servitù nel periodo giudicale era tenuta solo alla cessione di una parte del prodotto del proprio lavoro e in nessun modo i maggiorenti potevano disporre della loro vita. Un’organizzazione, dunque, che appare, relativamente ai suoi tempi storici, un unicum con elementi di assoluta modernità che appaiono come fasi embrionali di politica federale e di partecipazione democratica.