L’origine del patto Stato-mafia

Creato il 08 dicembre 2014 da Casarrubea

06/12/2014

Portella della Ginestra 2 maggio 1947: funerali dei caduti

L’ultima verità su Giuliano e la prima strage dell’Italia repubblicana nell’inchiesta di Casarrubea e Cereghino. Un intrigo internazionale lungo quasi 70 anni, che ha visto coinvolti apparati statali, mafia, ambienti nazifascisti, servizi italiani e americani, massoneria. Dagli archivi inglesi e statunitensi la documentazione di una ferita alla base della nostra democrazia, aperta ancora oggi.

di Rossella Guadagnini

“Da chi dovevo saperlo, se tutti i vertici del Viminale di quella stagione hanno dichiarato ai vari pm di non avere mai saputo di trattative. Chi, signor Giudice, me ne doveva parlare? Chi me ne avrebbe parlato?”. Così l’ex ministro dell’Interno, Nicola Mancino, rendendo l’8 gennaio scorso dichiarazioni spontanee nel processo di Palermo sulla trattativa Stato-mafia, che lo vede imputato di falsa testimonianza insieme ad altre nove persone, tra capi di Cosa nostra e rappresentanti delle istituzioni, dopo lo stralcio del boss Bernardo Provenzano per “incapacità processuale” e la richiesta di rito abbreviato per l’ex ministro Dc Calogero Mannino. Già, chi o che cosa doveva parlare di questo scellerato accordo con Nicola Mancino, a capo di un dicastero chiave della Repubblica italiana tra il ’92 e il ’94? La storia forse.

Una storia non remotissima ma piuttosto recente, tanto che non si fa in tempo nemmeno a studiarla a scuola. Ci racconta come – fin dalle origini della Repubblica – gravi il peso di un patto stretto tra istituzioni e criminalità, servizi segreti italiani e stranieri (soprattutto americani e inglesi), fratellanza massonica italo-americana. Un patto che, a partire dal secondo dopoguerra, si rinnova ad ogni transizione dolorosa e confusa, segnando il passaggio tra la fine del conflitto e la prima Repubblica, quindi la nascita della seconda, dopo le stragi del ‘92-‘93.

E’ la tesi di due studiosi, lo storico Giuseppe Casarrubea e il ricercatore Mario Josè Cereghino, che – scandagliando gli archivi inglesi e statunitensi – hanno ricomposto un’imponente documentazione, pubblicata in un volume appena edito da Bompiani, intitolato “La scomparsa di Salvatore Giuliano. Indagine su un fantasma eccellente” (pagg. 360, euro 12,50). Basata su testimonianze di prima mano, l’inchiesta non mancherà di sollevare polemiche e interrogativi a causa dei parallelismi con l’attualità più scottante. La prefazione al volume è di Nicola Tranfaglia.

Come nella vicenda delle stragi del ’92-’94, anche allora c’era un ministro dell’Interno democristiano. E’ Mario Scelba, collaboratore di don Luigi Sturzo, braccio destro di Alcide De Gaspari, capo del Sis, la cui conoscenza di quello che stava accadendo “a livello periferico” è comprovata da carte della stessa intelligence, fortunosamente ritrovate in un sottoscala di una casa in via Appia, a Roma, e riprodotte nel volume. Antifascista ma soprattutto anticomunista di ferro, Scelba è al Viminale, nel periodo che va dal ’47 al ’53. Cioè gli anni cruciali che cominciarono con l’eccidio del primo maggio 1947 a Portella della Ginestra, “la madre di tutte le stragi”, fino all’assassinio del suo autore riconosciuto, Salvatore Giuliano, del 5 luglio 1950 a Castelvetrano, in provincia di Trapani.

Un omicidio a cui i due autori non sembrano prestare troppa fede, parlando di ‘messa in scena’. Al punto che le loro ricerche hanno fatto riaprire le indagini alla Procura di Palermo, fino alla riesumazione, nel 2010, della salma del bandito. Il sospetto è che lì vi fosse sepolto un sosia di Giuliano, il quale, messo in salvo dalla Cia, avrebbe trovato rifugio in America, vivendo sotto copertura e lavorando per il Pentagono con il nome di Joseph Altamura. Operazione delicatissima, gestita dall’Anello di Giulio Andreotti, al tempo sottosegretario di De Gasperi, secondo quanto confessato da Michele Ristuccia, ex agente dei servizi italiani. Una riesumazione in piena regola, come quella avvenuta un anno dopo nella Basilica Santa Apollinare, a Roma, di un’altra celebre salma, quella di Enrico De Pedis, detto Renatino, boss della banda della Magliana coinvolto nella scomparsa di Emanuela Orlandi, che ha visto protagonisti, oltre alla criminalità organizzata, servizi e alte gerarchie vaticane. Vecchie ossa che fanno tremare, perché in Italia – a quanto pare – i morti ‘parlano’ molto più dei vivi.

In seguito, sui resti di Giuliano è stata eseguita la prova del Dna, comparandolo con quello del nipote. “Ancora oggi però – ci spiega Cereghino – sebbene la perizia sia conclusa, attendiamo i risultati del rapporto ufficiale. Non si sa quando arriveranno”. Come non si sa da dove è uscita la data del 2016, in cui cadrebbe il segreto di Stato sulla morte del re di Montelepre, descritto dall’intelligence americana come “capo di una banda fascista in Sicilia”. Dopo lo sbarco degli alleati si contavano fino a 37 gruppi armati nell’Isola: solo quello di Giuliano rimase, “in quanto era l’unico politicizzato in direzione del cosiddetto separatismo, una copertura del neofascismo in epoca successiva alla caduta del duce”. Il contributo di questa nuova ricerca su colui che – circonfuso da un alone leggendario – fu ritenuto una specie di Robin Hood, che rubava ai ricchi per dare ai poveri, è quello di aver delineato i contorni di una figura criminale con poche caratteristiche del bandito e molte del terrorista.

La sua organizzazione è un vero e proprio commando armato di circa 80 uomini, che compie feroci scorribande in Sicilia: i morti si contano a centinaia. Dopo la strage degli innocenti di Portella, Giuliano esige dai suoi mandanti la garanzia dell’immunità e l’espatrio per sé e per i suoi uomini. Ma gli apparati dell’intelligence e i piani alti dei palazzi romani – a quel punto – fanno orecchie da mercante. Il re di Montelepre inizia così una guerra personale contro lo Stato e i suoi rappresentanti, a cominciare dalle rappresaglie contro l’Arma, per far pressione in modo che i patti vengano rispettati. Prende così avvio la trattativa, tra lo Stato e Giuliano, protetto da Cosa nostra, che “ha avuto, fin dallo sbarco alleato, il compito di controllare il territorio – commenta Cereghino – Un compito assolto finora, grazie ai vari Liggio, Riina e Provenzano”.

La storia si ripete. Magari non esattamente negli stessi termini, ma si ripete, per la semplice ragione che gli uomini sono gli stessi e il loro desiderio di potere – da affermare a qualsiasi prezzo – è il medesimo. Se esiste una datazione possibile alla quale si può far risalire l’origine del male, un metodo che stabilisca con la minore approssimazione possibile come fare a individuarlo, Casarrubea e Cereghino indicano che dalla mole dei documenti, molti dei quali desecretati di recente, esce un’indicazione precisa: il nodo iniziale è Portella della Ginestra, cui seguirono l’anno dopo le elezioni politiche nazionali del 18 aprile 1948.

Il discrimine, lo spartiacque parte proprio da quella carneficina di contadini in festa, che diventa la matrice originaria, purtroppo feconda, della serie di altri massacri che hanno costellato la storia repubblicana, condizionandone il percorso. Un romanzo criminale che mantiene inalterata la combinazione tra mafia, politica e istituzioni. E’ in seguito a quei fatti che nasce la trama della trattativa Stato-mafia, quell’”intesa tacita e parziale tra parti in conflitto”, secondo le parole di Giuseppe Pisanu (ex democristiano moroteo ed ex Pdl oggi montiano), presidente della Commissione Antimafia che, nei giorni scorsi, ha presentato la relazione sulle stragi dell’inizio degli anni Novanta.

Una storia di eccidi impuniti, i cui mandanti politici sono rimasti occulti, i cui esecutori materiali sono stati almeno in parte individuati, la cui documentazione è in buona parte pubblica. Insomma, quasi tutto è sotto gli occhi di tutti, eppure è un ‘mistero’ preoccupante e minaccioso. E’ questo il vero e più grande enigma che avvolge le origini della nostra democrazia, pesa sul presente come un macigno e incombe sul futuro, ipotecandone gli sviluppi. Ma a quale scopo tanta crudeltà e tanta pena, tanto silenzio e tante vittime? L’intento è conservare il predominio, mantenere la supremazia di alcuni schieramenti politici, contrastare la crescita di altri. Per comprendere quali furono i veri mandanti delle stragi, coloro che si avvalsero della strategia della tensione, occorre chiedersi a chi giovò effettivamente, chi ne trasse reali vantaggi e benefici, quale tipo di equilibrio o disequilibrio tra le forze in campo si intendeva mantenere nel nostro Paese. A cominciare dall’immediato dopoguerra, che vede l’Italia in macerie piegata dal conflitto e affamata, politicamente divisa, con problemi di separatismo e banditismo nel Meridione e nelle isole, alimentati da bande nazifasciste e criminalità organizzata in via di crescente affermazione.

E’ il primo maggio 1947: in Sicilia, come nel resto d’Italia, si torna a celebrare la festa dei lavoratori, spostata al 21 aprile Natale di Roma durante il regime. Circa duemila lavoratori della zona di Piana degli Albanesi, in prevalenza contadini, si sono riuniti nella vallata di Portella della Ginestra per manifestare contro il latifondismo, a favore dell’occupazione delle terre incolte, e festeggiare la vittoria del Blocco del Popolo nelle recenti elezioni per l’Assemblea Regionale Siciliana. All’improvviso, dalle colline circostanti, partono raffiche di mitra che vengono scambiate all’inizio per scoppi di mortaretti: lasciano a terra, secondo le fonti ufficiali, 11 morti (9 adulti e 2 bambini) e 27 feriti, di cui alcuni morirono poi per le ferite riportate.

La Cgil proclamò lo sciopero generale, accusando i latifondisti siciliani di voler “soffocare nel sangue le organizzazioni dei lavoratori”. Quattro mesi dopo si seppe che a sparare materialmente erano stati gli uomini del bandito Salvatore Giuliano, colonnello dell’Evis, l’Esercito Volontario per l’Indipendenza in Sicilia, definito dagli alleati un corpo paramilitare guidato e finanziato dalla Repubblica di Salò. Il rapporto dei carabinieri sulla strage faceva chiaramente riferimento ad “elementi reazionari in combutta con i mafiosi”.

“C’è una continuità storica – sottolinea Casarrubea – segnata da una serie di stragi che, a partire da Portella della Ginestra, hanno costruito un percorso di azione politica eversiva, volta a ottenere risultati attraverso una lotta politica non ortodossa e sotterranea. Noi abbiamo costantemente registrato una connessione tra l’azione dei servizi segreti, prima il Sis poi il Sifar e il Sismi, con altri livelli di azione dello Stato, legati per un verso al governo nazionale, per l’altro al mondo di Cosa nostra. Si è trattato di un’interazione in cui hanno agito, in modo organico, tre soggetti diversi: elementi del mondo criminale, dominato dalla mafia, che ha funzionato come una sorta di sistema solare rispetto alle orbite del mondo criminale circostante; servizi segreti italiani, dominati a loro volta da quelli americani, Oss e poi Cia; mentre il terzo soggetto è il potere politico”.

Un potere che non è mai stato autonomo rispetto a queste entità, ma “ha interagito in modo organico con esse – conclude lo studioso – Tanto che parlare di Cosa nostra come di un corpo separato è un errore storiografico: è dimostrato che esistono intese costanti nel tempo, che conducono fino alla vicenda di Falcone e Borsellino, e non nascono in una notte dell’estate del ’92. Connessioni che sono negate e continuano a esserlo anche oggi”. Il risultato è che i mandanti della strage di Portella della Ginestra non si conoscono a distanza di quasi 70 anni. Non c’è alcuna verità ufficiale. “Cosa sono queste stragi – chiede Casarrubea – se non la manifestazione di un intervento armato su inermi cittadini?”. Un intervento che, dopo ogni crimine efferato, cerca costantemente le vie del silenzio e della compromissione. E riesce a trovarle.

Da MicroMega (14 gennaio 2013)

Ripreso da Alberto Del Grosso

Garante dei Lettori (Positano New)


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