Confesso: leggo pochissimi romanzi di scrittori recenti. Non per mancanza di tempo o di voglia, ma semplicemente perché m’annoiano, li trovo ripetitivi e monotoni. L’ultimo che ho letto (per dovere d’ufficio), La solitudine dei numeri primi, mi ha confermato nell’idea. Avevo iniziato anche un romanzo di Andrea Camilleri, Un filo di fumo, ma non sono riuscito ad andare oltre la metà delle pagine. E poi sfoglio, sfoglio tanti tanti romanzi: Bevilacqua, Meneghello, Malerba, Maraini, Mazzucco, ecc. ecc. che scrivono, scrivono… e mi domando: cos’avranno tanto da raccontare? Ah! Malerba: dopo aver scritto un’intera pila di romanzi e altre amenità, scrive un libriccino dal titolo: Che vergogna scrivere. E mi dico: meno male! Se non si vergognava chissà quanto avrebbe scritto ancora. Per non parlare della Melania G. Mazzucco che ha scritto una biografia romanzata su Jacomo Tintoretto di ben mille pagine e passa, roba che se qualcuno me lo regalassi gli direi: grazie, ma mi fa male la schiena! Insomma, non mi piacciono questi autori che scrivono tanto al chilo. Non si tratta soltanto di una questione di gusto, ma denota (a mio parere) una mancanza di ricerca. Scrivono perché c’è un mercato editoriale che glielo impone: ogni nuovo romanzo pubblicato serve a rilanciare il loro nome, e quindi i loro prodotti. Scrivono perché vivono di scrittura, è il loro mestiere, come artigiani devono continuare a produrre i propri manufatti per campare. Intendiamoci: dal mio punto di vista io non ho nulla in contrario nei confronti della letteratura di intrattenimento, tuttavia, personalmente, a questo tipo di letteratura preferisco leggere Topolino, voglio dire se ho voglia di distrarmi preferisco più un fumetto che leggere Antonio Pennacchi: almeno, Topolino non ha nessuna pretesa e mi diverte, Un canale Mussolini m’avvilisce e mi annoia. E non si tratta neanche di una questione di prezzo: un mio amico me lo voleva regalare. Ho cominciato a sfogliare le prime pagine e gli detto, grazie, ma ne faccio a meno. Sì, è vero: diffido di questi autori celebri e celebrati. Forse anche per partito preso o per pregiudizio, fatto sta che diffido. Invece, ad esempio, un giorno mi capita tra le mani un romanzo di Vladimiro Bottone, un autore napoletano che ha pubblicato agli esordi con una casa editrice sconosciuta, aviglianoAEditore, dal titolo L’ospite della vita. Ebbene, sarà perché parla dell’ultimo anno di vita del mio poeta preferito, il mio Giacomino, sarà perché è un libro che parla di altri libri, sarà perché il suo stile narrativo lo percepisco molto affine al mio, insomma, sarà quel che sarà, ma io sin dalle prime pagine non mi stacco più da questo romanzo. Piano piano anch’io cammino insieme al narratore tra i vicoli di una Napoli del 1836, colpita dal colera, tra pescatori, marinai, vaiasse, venditori di cocomeri, cantastorie, gelatai, e mi fa camminare a fianco del poeta di Recanati. La lettura mi diverte, ma mi fa allo stesso tempo riflettere. E avverto che c’è un desiderio di ricerca, ricerca dello stile, ricerca narrativa, che l’autore non è un artigiano che fabbrica manufatti per il mercato, ma uno che ha qualcosa da dire e questo qualcosa lo adombra dietro la figura poetica di Leopardi. Ecco perché è un autore che non perderò più di vista.
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