Giovedì scorso, con l’intervento di Barack Obama, si è chiusa anche la convention del partito democratico. Con il suo discorso il presidente in carica ha dunque accettato per la seconda volta la candidatura del suo partito per un nuovo quadriennio alla Casa Bianca.
Secondo quanto stabilito dal XXII emendamento alla Costituzione, approvato nel 1951, lo “speech” pronunciato da Obama a Charlotte, di fronte a tutti i delegati degli stati e a circa 30.000 spettatori, è stato l’ultimo della sua carriera politica.
È stato un intervento molto più dimesso e riflessivo rispetto a quello trionfale di Denver di quattro anni fa, quando poteva presentarsi agli elettori come il candidato del cambiamento, del “change” e della volontà di cambiare Washington.
Oggi, come ha riconosciuto lui stesso, non è più solo il junior senator dell’Illinois che durante il suo tour in Europa e Medio Oriente del luglio 2008 aveva richiamato folle oceaniche, in particolare a Berlino.
Ormai è il presidente in carica, esperto di tutti i segreti della Casa Bianca e del processo democratico statunitense, consapevole dei limiti e possibilità del potere americano, in un mondo sempre più multipolare, e delle difficoltà di far ripartire l’economia americana, dopo la più grave crisi depressione dal 1929.
Con un tasso di disoccupazione superiore all’8% da 42 mesi consecutivi non se l’è sentita di usare l’occasione della convention del suo partito solo come un momento di celebrazione del suo primo mandato.
Ha voluto puntualizzare che molte cose sono state fatte, dalla storica riforma della sanità all’uccisione di Osama Bin Laden, alla fine della guerra in Iraq, ma altrettante saranno le cose che dovranno essere portate a termine in un eventuale secondo mandato. Obama ha quindi voluto sfruttare il suo discorso di accettazione come un vero e proprio momento verità sulla sua presidenza.
Senza infingimenti o falsi trionfalismi ha voluto sottoporsi all’esame del popolo americano e ha confessato che non è riuscito a fare tutto quello che avrebbe voluto nei primi quattro anni del suo mandato.
Ha quindi dichiarato di non essere riuscito a fare bene il lavoro per cui era stato eletto, ma proprio per questo ha chiesto ai suoi concittadini di concedergli altri quattro anni per concludere ciò che aveva iniziato.
Per nessun politico è semplice riconoscere di fronte ai propri elettori di non aver operato in modo adeguato, basti pensare ai nostri rappresentanti a Palazzo Chigi o in Parlamento, sempre pronti a giustificare i loro errori e le loro mancanze.
Non Obama, e di questo gli va dato atto. Nel suo discorso il presidente ha voluto anche mettere in chiaro che l’elezione del prossimo 6 novembre, forse più che in altre occasioni, porterà gli elettori a scegliere tra due opposte visioni dell’America e del mondo.
Se vincerà il ticket composto da Mitt Romney e Paul Ryan, gli Stati Uniti torneranno indietro di trenta anni in economia, con il ritorno della trickle down economics reaganiana, l’idea che solo abbassando le tasse ai ricchi e tagliando il welfare state ai più deboli l’economia potrà ripartire e qualche briciola di benessere potrà filtrare ai meno abbienti e di otto anni in politica estera, con la riconquista del potere dei neocon che hanno convinto George W. Bush a impelagarsi in due guerre da cui l’attuale presidente sta faticosamente cercando di riemergere.
Se invece Obama avrà la possibilità di restare altri quattro anni alla Casa Bianca, proverà a continuare nella sua strategia economica di stampo keynesiano, attraverso un mix di attività privata e intervento pubblico in economia per permettere al sistema di tornare a crescere (magari con più incisività di quanto avvenuto finora, come ha spesso raccomandato in questi anni Paul Krugman dalle colonne del New York Times) e per tutelare gli interessi di quella classe media che rappresenta la più importante constituency del partito democratico.
La posta in gioco è quindi elevata e nei prossimi due mesi la lotta tra Obama e Romney sarà durissima e senza esclusione di colpi.
Probabilmente la differenza nella competizione la faranno i tre dibattiti che si terranno tra i due candidati a ottobre e, da quel che si è visto negli scontri diretti tra i pretendenti repubblicani alla nomination di questo inverno, Romney non sembra in grado di combattere ad armi pari con la retorica e la preparazione di Barack Obama.