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L’ultima notte del mondo – Ray Bradbury (racconto completo da "L’uomo illustrato")

Creato il 14 febbraio 2015 da Maxscorda @MaxScorda

14 febbraio 2015 Lascia un commento

«Che cosa faresti se sapessi che questa è l’ultima notte del mondo?»
«Che cosa farei? Dici sul serio?»
«Sì, sul serio.»
«Non so. Non ci ho pensato.»
Lui si versò del caffè. Le due bambine giocavano sul tappeto del salotto alla luce delle lampade verdi.
Un piacevole e puro aroma di caffè si diffondeva nell’aria della sera.
«Be’, è meglio cominciare a pensarci,» disse lui.
«Non puoi dire una cosa simile!»
Egli annuì.
«Una guerra?»
Scosse il capo.
«La bomba atomica o la bomba all’idrogeno?»
«No.»
«Una guerra batteriologica?»
«Niente di tutto questo,» disse lui, mescolando lentamente il suo caffè. «Solo, diciamo, solo un libro che si chiude, ecco.»
«Credo di non capire.»
«In realtà, non capisco nemmeno io; è solo un presentimento. A volte sono spaventato, a volte non lo sono affatto, anzi sono tranquillo.» Diede un’occhiata alle bambine e ai loro capelli biondi, splendenti nella luce della lampada. «Non ti ho detto niente, prima. È successo la prima volta quattro notti fa.»
«Che cosa?»
«Un sogno che ho fatto. Ho sognato che tutto sarebbe finito, una voce lo diceva; non un genere di voce che possa ricordare, ma comunque era una voce e diceva che le cose avrebbero avuto fine sulla Terra. Non ci pensai molto il giorno dopo, ma quando andai in ufficio a metà pomeriggio sorpresi Stan Willis che guardava fuori dalla finestra, e dissi: "Un soldo per i tuoi pensieri, Stan". Egli rispose: «Ho fatto un sogno la notte scorsa» e prima ancora che me lo raccontasse capii di che si trattava. Avrei potuto raccontarglielo io stesso, ma fu lui a farlo ed io lo ascoltai.»
«Era lo stesso sogno?»
«Identico. Dissi a Stan che lo avevo fatto anch’io. Non parve sorpreso. Anzi, si rilassò. Poi, come per caso, ci mettemmo a girare per l’ufficio. Non l’avevamo stabilito. Non avevamo detto "Diamo un’occhiata in giro". Ce ne andammo per nostro conto e dovunque vedemmo gente che fissava la scrivania, che si guardava le mani o gettava un’occhiata fuori dalla finestra. Parlai ad alcuni di loro. E così fece Stan.»
«Avevano tutti sognato?»
«Tutti. Lo stesso sogno; senza la minima differenza.»

«Ci credi?»
«Sì. Non sono mai stato più sicuro.»
«E quando finirà, il mondo, voglio dire?»
«Ad un certo momento durante la notte, per noi, e poi gradatamente, ovunque, man mano che la notte girerà attorno al mondo. Ci vorranno ventiquattr’ore prima che tutto sia finito.»
Restarono seduti per un istante senza toccare il caffè. Poi alzarono le tazze lentamente e bevvero, guardandosi.
«Meritiamo tutto ciò?» disse lei.
«Non è questione di meritarlo o no; è che le cose non sono state calcolate. Ho notato che non hai nemmeno tentato di discuterne. Perché?»
«Penso di avere un motivo,» rispose lei.
«Lo stesso che tutti avevano all’ufficio?»
Lei annuì lentamente. «Non volevo dir nulla. È accaduto la notte scorsa. Ed oggi le donne del palazzo ne hanno parlato fra di loro. Hanno fatto un sogno. Ho pensato si trattasse di una coincidenza.» Prese il giornale della sera. «Il giornale non ne parla.»
«Tutti lo sanno. Non ce n’è bisogno.»
Lui si appoggiò allo schienale della sedia, fissandola. «Hai paura?»
«No. Ho sempre pensato che l’avrei avuta, ed invece no.»
«Dov’è quell’istinto detto spirito di conservazione di cui hanno sempre tanto parlato?»
«Non so. Non ci si agita molto quando si ritiene che le cose siano logiche. E tutto ciò è logico. Non sarebbe potuto accadere nient’altro che questo, considerando il modo in cui abbiamo vissuto.»
«Non siamo stati troppo malvagi, no?»
«No, e nemmeno enormemente buoni. Penso che sia questo il guaio… non siamo stati "troppo" di nulla, solo noi stessi ecco, mentre una gran parte del mondo intero era occupato a far cose terribili.»
Le bambine ridevano in salotto.
«Ho sempre pensato che la gente sarebbe andata in giro urlando per le strade, in una circostanza simile.»
«Non credo. Non si urla, quando si è di fronte alla fine autentica.»
«Lo sai, mi mancherete solo tu e le bimbe, niente altro. Non ho mai particolarmente amato le città, o il mio lavoro; solo voi tre. Forse mi mancherà il cambiamento del tempo o un bicchiere di acqua ghiacciata quando fa caldo, e il sonno. Ma come possiamo star qui a parlarne in questo modo?»
«Perché non c’è nient’altro da fare.»
«Evidentemente no. Perché se ci fosse qualcosa da fare, la faremmo. Credo che questa sia la prima volta nella storia del mondo che ognuno sa quello che farà durante la notte.»
«Mi domando che cosa faranno gli altri, adesso, stasera e nelle prossime ore.»
«Andranno a uno spettacolo, ascolteranno la radio, guarderanno la televisione, giocheranno a carte, metteranno a letto i bambini, andranno a letto loro stessi, come sempre.»
«In un certo senso dobbiamo essere orgogliosi di questo, di… questo "come sempre".»
Restarono un attimo zitti, poi lui si versò dell’altro caffè.
«Perché supponi sia questa notte?»
«Così.»
«Perché non è accaduto una notte nel secolo scorso, o cinque secoli fa, o dieci?»
«Forse perché non è mai stato il 19 ottobre 1969 prima, nella storia, ed ora lo è, ecco. Perché questa data significa più di quanto abbia mai significato qualsiasi altra data; perché è l’anno in cui le cose sono come sono in tutto il mondo ed ecco perché è la fine.»
«Ci sono bombardieri in volo stanotte, nei due sensi sopra l’oceano, che non vedranno mai più la Terra.»
«Ciò fa parte del perché.»
«Be’,» disse lui, alzandosi, «che facciamo? Laviamo i piatti?»
Rigovernarono e riposero i piatti con speciale accuratezza. Alle otto e mezzo misero a letto le bambine e diedero loro il bacio della buonanotte. Accesero le piccole lampade accanto ai loro letti e lasciarono la porta appena socchiusa.
«Mi domando…» disse il marito, uscendo dalla stanza da letto, gettando un’occhiata indietro e fermandosi per un attimo sulla soglia, con la pipa in mano.
«Che cosa?»
«…se la porta verrà chiusa completamente o se verrà lasciata appena aperta affinché possa entrare uno spiraglio di luce.»
«Mi chiedo se le bambine lo sanno.»
«No, certamente no.»
Sedettero, lessero i giornali, parlarono, ascoltarono un po’ di musica alla radio. Poi si sistemarono insieme davanti al camino ad osservare i tizzoni infuocati, mentre l’orologio batteva le dieci e trenta, le undici, le undici e trenta. Pensarono a tutte le altre persone in tutto il mondo, che avevano trascorso la loro serata, ciascuna a modo suo.
«Bene,» disse lui finalmente.
Baciò a lungo la moglie.
«Comunque siamo stati felici insieme.»
«Vuoi piangere?» chiese lui.
«Non credo.»
Si aggirarono per la casa, spensero le luci ed entrarono nella camera da letto. Restarono nella fredda oscurità notturna spogliandosi e rialzando le coperte. «Le lenzuola sono così pulite.»
«Sono stanca.»
«Siamo tutti stanchi.»
S’infilarono a letto e si distesero.
«Un momento solo,» disse lei.
L’udì scendere dal letto e andare in cucina. Un attimo dopo faceva ritorno. «Avevo lasciato aperta l’acqua nel lavello,» disse.
C’era qualcosa di buffo in tutto ciò, e lui si mise a ridere. Anche lei rise, sapendo che il suo gesto era stato buffo. Poi tacquero e giacquero nel loro freddo letto, le mani unite, le teste vicine.
«Buona notte,» disse lui, dopo un momento.
«Buona notte,» rispose lei.


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