Ci sono ingredienti che rendono un film apprezzabile, intenso o semplicemente scontato, il terzo è il caso de “l’ultimo anello della follia” – Eagle Pictures Canada -2000.
Daryl Hannah dopo un aborto spontaneo decide con il suo maritino, un inespressivo Bruce Greenwood, di provare con l’inseminazione artificiale. Apparentemente l’innesto non riesce ma una notte, la donna viene rapita. Si risveglierà in una cantina ben arredata per scoprire di essere prigioniera di due psicopatici, Jennifer Tilly e Vincent Gallo.
Lui lavora presso l’istituto che ha eseguito l’operazione d’inseminazione e che, in realtà, è riuscita alla perfezione, e per questo, non avendo i due possibilità di procreare, vogliono usare la Hannah come utero a noleggio.
È chiaro sin dall’inizio che fine farà Ann subito dopo il parto, è anche chiaro che i due maniaci entreranno presto in conflitto e che nessuno potrà, invece, sentire le urla della povera puerpera.
Il marito di Ann, appunto inservibile, tornato a casa dopo parecchi giorni e si meraviglia dell’assenza della moglie –della serie il telefono non esiste e se tu ami una persona e sei in viaggio, non puoi non chiamarla almeno due volte al dì-, cerca di convincere la polizia che sua moglie non è morta. Perché lui lo creda, comunque, il regista Sidney J. Furie, non ce lo spiega se non a metà del film, dopo il ritrovamento, sotto al letto, del ciondolo che avrebbe dovuto essere all’interno dell’auto trovata carbonizzata dalla polizia.
L’incipit è forte e anche spaventoso: l’idea che una donna incinta sia alla mercé di due pazzi fa veramente male, ci disturba e crea una grossa sensazione di disagio, ma sia la recitazione che le solite distrazioni ad hoc fanno di questo un film evitabile.
Non usare a dovere la mazza da baseball sulla testa dei due rapitori, non approfittare di situazioni che sembrano lì a portata di mano per favorire la fuga, non correre in cucina a prendere un lungo coltello anziché stare ad armeggiare alla porta alla ricerca della chiave giusta, fanno di questa, una pellicola inutile.
Non accertarsi della morte del carnefice quando finalmente ci si ribella, fa così colpo di scena da manuale (“Attrazione fatale” e chi più ne ha più ne metta) da far venir voglia di finirla lì.
Lontani mille miglia da un seppure abbozzato approfondimento psicologico, Vincent Gallo –che per sua moglie rischia la vita- passa per un maniaco sessuale di periferia e Jennifer Tilly, che sia in originale sia doppiata, starnazza come un’oca non ha nulla dell’amorevolezza di una futura madre o di una compagna così sensuale da portare un uomo alla follia, e nemmeno di una con serie turbe psichiche.
Distante dalla coppia di sadici il ricordo di qualunque dramma psicologico che è, anzi, del tutto inesistente, come se per caso si fossero trovati lì prima del ciak, a decidere di rapire una donna incinta per rubarle il neonato.
Fastidiose, a mio avviso, certe affinità con il capolavoro spilberghiano di “Misery non deve morire”: la casa nella neve, le catene che legano Ann al letto, le urla e l’atteggiamento della carceriera che cerca di continuo la complicità della vittima, che ragiona con lei alla ricerca di un’intesa o almeno ci prova.
Comica la Hannah legata al letto e con tanto di lucidalabbra rosa perlato.
Nel frattempo, la pancia della Hannah cresce -nonostante a noi spettatori sembri una semplice appendice- mentre Vincent Gallo, esperto infermiere, la nutre, la prepara al parto e la dà di tanto in tanto una seria toccatina mentre la Tilly prepara disgustosi frullati pieni di proteine.
Intanto, l’inutile marito che non riesce nemmeno ad avere storie –sempre per quella sensazione inespressa che lo tallona-, aspetta il finale del film che, ovviamente, era chiaro sin dell’inizio.
Ambulanze e coperte sul finale non ci ripagano di una perdita di tempo di centocinque minuti.