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"l'ultimo arrivato" di marco balzano

Creato il 20 settembre 2015 da Fabrizio64
Sussiste una sinergia perfetta fra il romanzo vincitore del Premio Campiello 2015 “L’ultimo arrivato” di Marco Balzano (Sellerio) e la produzione cinematografica neorealista del dopoguerra. Seppur avrei preferito l’assegnazione del premio a Il tempo migliore della nostra vita di Antonio Scurati (http://giulimondi.blogspot.it/2015/08/verso-il-premio-campiello-2015-il-tempo.html), attraverso “L’ultimo arrivatoBalzano riesce a far immergere il lettore, senza illusioni, senza infingimenti, con implacabile assenza di speranza, in uno spossante senso di solitudine, di mestizia, di tristezza, di ripetitività (che solo trentadue anni di lavoro robotico alla catena di montaggio può dare), di grigiore, di giorni tutti eguali, come se non ci fosse differenza fra la permanenza decennale in un carcere, la vita in un bilocale di un quartiere operaio milanese e il lavoro in fabbrica.Il lettore vive il senso di costante, persistente, reale abbandono di Ninetto detto Pelleossa, che all’ età di nove anni, accompagnato da un parente, se ne va dalla Sicilia a Milano (ma sempre un napulìè), dove insieme ad altre migliaia di emigranti meridionali cerca di ricominciare una vita che, invece,  non si riavvierà mai.Ninetto è la summa di tutti quei terroni che, specie nel triennio 1959-1962, anche giovanissimi, hanno cercato fortuna nel triangolo industriale Genova-Milano-Torino.Ninetto trova lavoro, si sposa a quindici anni di nascosto, alle quattro e mezzo del mattino, con una coetanea, ha una figlia e una nipote, vive nel cupo di una casa, anonima come altre centinaia, conosce la galera, ma rimane sempre un emigrante, un senza Terra privo di radici e di futuro. Alla fine Ninetto non è siciliano, non è milanese, ne è un marito, o un  padre, o un nonno, perché non merita neanche il perdono dei familiari per il crimine compiuto.Ninetto è la summa delle biografie dei tanti emigranti meridionali interni ed esterni, la cui esistenza è stata un “rosario”, un “tunnel” in fondo al quale, talvolta, sembrava scorgere il baluginio di una luce…sembrava…Quando è arrivata la fabbrica, invece, mi sarò pure sistemato. Ma sono entrato in un tunnel buio. E’ stato un rosario, dottoressa. Sì, ha capito bene, un rosario, che è la preghiera più stupida possibile perché a furia di ripetere a macchinetta la stessa solfa anche la parola di Dio rimbomba a vuoto, come la voce in una pentola di rame. E il carcere, cara dottoressa, lo sa cosa è stato per me il carcere? Secondo rosario e secondo tunnel”……”Anche io sono straniero. Reietto e squalificato a vita. Anche io sento che le ragioni non esistono e che quelle poche che si possono trovare le so spiegare solamente in una lingua che gli altri non intendono”…..”Così, anche se non ci credo più, ci spero. E anche se mi sono seccato di vivere, vivo”……”Sì, perché quando mi perdo nei miei racconti non sono più corpo, ossa, muscoli. Solo anima e voce.”.
Fabrizio Giulimondi

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