L’ultimo capodanno di Lionello Manfredonia

Creato il 31 dicembre 2013 da Controcalcio

di Fabio Belli

Lo chiamavano ‘l’avvocato‘ per gli studi di Giurisprudenza, poi davvero terminati con tanto di carriera avviata. L’eloquio forbito e al di sopra degli standard dei calciatori dell’epoca e, lo si è visto poi, anche del futuro. Carattere schivo, secondo qualcuno scontroso, secondo altri arrogante, quello di Lionello Manfredonia. Prodotto di un vivaio laziale divenuto florido negli anni settanta, capace di vincere lo scudetto Primavera in una squadra trascinata assieme al “gemello” Bruno Giordano di Trastevere. Un futuro promettente in parte rovinato, frenato da scelte sbagliate, prima finendo invischiato nel primo, fragoroso scandalo del calcioscommesse, poi ritardando quel passaggio ad una delle grandi del Nord, la Juventus, che forse più si confaceva al suo carattere e alle sue ambizioni.

Tanto romano, sanguigno e trasteverino appariva Giordano, tanto riservato e teso al professionismo appariva Manfredonia. I due anni di inattività, prima dell’amnistia per la vittoria al Mondiale 1982 degli azzurri, non arrugginirono ginocchia e un senso dell’anticipo che gli permettevano di giostrare sia da libero difensivo che da mediano con indifferente disinvoltura, con il quattro cucito sulla maglia. Definirlo snob è forse ingeneroso, forse calzante: finì che alla Juve Lionello ci andò davvero, e ci andò per vincere. A Roma ci tornò a modo suo, sull’altra sponda cittadina, attirandosi il disprezzo dei vecchi tifosi, ma soprattutto scatenando una spaccatura in Curva Sud che causò anche parecchi screzi durante le partite.

All’improvviso cominciò a spuntare uno striscione con la scritta GAM, Gruppo Anti Manfredonia. Se ne infischiò, giocando sempre spalle strette e testa alta come aveva sempre fatto. Nel 1989 le ultime battute della carriera sono vicine, quando si arriva al turno di Capodanno di un campionato intenso, col calcio italiano in un periodo di splendore accecante, come testimoniato anche dai risultati dei club nelle coppe europee, e che si avvicinava a grandi falcate verso il Mondiale del 1990. All’epoca il calcio sotto le feste non era ad esclusivo appannaggio della Gran Bretagna, ed il termine boxing day era familiare solo Oltremanica. L’anno prima si giocò addirittura il 31 dicembre, tutti in campo e poi di corsa a brindare. Nella stagione 1989/90, l’ultima giornata dell’anno si disputò il 30 dicembre: un Bologna già in difficoltà, destinato alla retrocessione, ospitava la Roma di Gigi Radice.

Manfredonia si accasciò in campo nelle prime battute del primo tempo, inspiegabilmente, senza segnali di malesseri precedenti, forse qualche sintomo influenzale lamentato prima del match. Faceva freddo al Dall’Ara, e tutti si accorsero immediatamente della gravità della situazione, compreso il “gemello” Giordano che per un curioso scherzo del destino era in campo, con la maglia dei felsinei. Si parlò subito di infarto, ma i successivi esami specificarono che si trattava di un arresto cardiaco senza insufficienza circolatoria. Se non ci fosse stato un defibrillatore a bordo campo, all’epoca una vera e propria rarità, la tragedia avrebbe potuto essere completa. Si svegliò qualche giorno dopo all’ospedale Maggiore di Bologna, Manfredonia, assistito dalla famiglia e dagli amici di sempre, come Fulvio Collovati, che accorsero al suo capezzale.

La notte di San Silvestro i telegiornali mostrarono una sua foto dalla sua stanza d’ospedale, un timido saluto che lasciava presagire il meglio. E così fu, anche se quello fu il suo ultimo Capodanno da calciatore, senza ottenere più l’idoneità. Quel cuore che si era fermato così improvvisamente fu un monito impossibile da ignorare, ed quello di Manfredonia fu il primo caso in cui ci si interrogò sul serio sulla sicurezza dei calciatori in caso di malore, accorgendosi che in caso di intervento pronto e rapido, gli esiti potevano anche non essere fatali come avvenne, ad esempio, nel caso della tragedia di Renato Curi. Ma nonostante gli esami, la causa che costò lo stop al cuore di Lionello non venne mai accertata. Restarono la carriera da avvocato e procuratore, la famiglia, la vita: cioè tutto, quando si corre un rischio così.



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